giovedì 30 gennaio 2014

EDIZIONI FAI-DA-TE

Ieri ho pubblicato sul quotidiano on line Linkiesta una riflessione sui rischi del self-publishing. La riporto anche qui di seguito.

IL RISCHIO DI DIVENTARE EDITORI DI SÉ STESSI

Da tempo mi occupo di esordienti, in qualità di consulente di case editrici e curatore di riviste letterarie, e come tutti seguo con interesse il dibattito sull’evoluzione dell’editoria chiamata a confrontarsi con le nuove prospettive aperte dal digitale. 
Di recente mi è capitato di leggere la significativa testimonianza della blogger Loredana De Michelis, che riesce ad evidenziare in maniera sintetica ed efficace i limiti che il sistema attuale del mercato dell’ebook comporta (classifiche di vendita manipolabili, recensioni fasulle, trucchetti di autopromozione), ma allo stesso tempo bene illustra sia i percorsi che portano un esordiente a scegliere la strada della pubblicazione in digitale, che gli errori che è portato a fare (refusi, scelta casuale della copertina). Interessante è anche la disinvoltura che Loredana evidenzia nella scelta dei materiali da mettere sul mercato (“Scovo una raccolta di lettere che avevo scritto da Londra... Ecco un altro possibile ebook già pronto”): un approccio nei confronti del concetto di “pubblicazione” che fino a qualche tempo fa sarebbe stato impensabile. 
Questo articolo mi ha fatto riflettere sulla mia esperienza personale di scouting e su alcuni eventi recenti. Già diverse volte mi è capitato un episodio di questo genere: qualcuno mi manda un testo in lettura, io gli scrivo facendogli le mie osservazioni e come risposta ricevo una mail sulla falsariga di: “Grazie, ma intanto ho deciso di farlo uscire in e-book. Non avevo voglia di aspettare troppo a lungo le risposte degli editori”. In alcuni casi questo scambio avviene nel giro di qualche settimana: l’autore in questione non ha avuto la pazienza di aspettare neanche un mese

A me sembra che una scelta come l’autopubblicazione in ebook per un esordiente comporti due conseguenze, diciamo una ‘esterna’ e una ‘interna’. Quella esterna è l’ovvio effetto da intasamento anonimo, l’ennesimo e-book di sconosciuto a 0.99 euro in una marea di prodotti simili indistinguibili fra loro. Ma è sull’effetto interiore che vorrei concentrarmi, quello che riguarda la relazione fra l’autore e la propria opera. Una volta che il testo è stato licenziato, che l’e-book è consegnato nelle mani del pubblico (malgrado poi, nella quasi totalità dei casi, si rivelerà essere composto da qualche decina di persone, conoscenti diretti dello scrittore), la sensazione sarà quella di aver concluso il lavoro e di essere pronti per mettersi all’opera sul romanzo successivo. Il libro è pubblicato, discorso chiuso.
Quello che avveniva prima invece, nel tentativo di ottenere la pubblicazione cartacea tramite un editore, era fatto sì di lunghi mesi di attesa, di frustrazione, di invii a vuoto, ma anche, in diversi casi, di allacciamento di rapporti, di letture critiche, di rifiuti e stroncature, ma anche di osservazioni sul testo, di suggerimenti, di evidenziazione dei punti deboli, di giudizi, forse severi ma professionali. Spesso l’esordiente, sulla base di queste reazioni, era portato a rivedere il suo lavoro, a riscriverlo, a operare dei cambiamenti, anche radicali se necessario, a lavorare a una nuova stesura, oppure a rinunciarvi del tutto, scegliendo di iniziare un nuovo progetto sulla base dell’esperienza fornitagli dagli errori precedenti. 
In sintesi, a me pare che una grave conseguenza dell’immediata uscita in e-book per un principiante sia quella di sottrarsi al rapporto dialogico che la strada tradizionale comporta. Trasformarsi in editori di se stessi significa saltare una serie di passaggi, alcuni anche molto frustranti, questo è fuori dubbio. Ma è davvero salutare evitarli?
Concedetemi delle metafore arbitrarie: lo sportivo che rinuncia agli allenamenti per non dover sopportare i rimproveri del coach, il musicista che salta la gavetta per non subire l’umiliazione di suonare in un bar dove nessuno dei presenti gli presta attenzione, saranno poi in grado di affrontare l’arena con le solide basi che richiede?
Mi spingo ancora oltre: prima, la fame di giudizi che aveva un autore in erba sul proprio manoscritto era tale da spingerlo a sottoporlo alla lettura di amici, insegnanti, fidanzate, colleghi. Anche questa era una minima forma di palestra. Oggi quegli stessi interlocutori sono i suoi lettori potenziali, si rivolge a loro dopo aver pubblicato il testo in forma elettronica, li invita ad acquistarlo. A loro volta questi non gli faranno osservazioni sul testo a cui sta lavorando (e che potrebbe essere spinto a modificare, perfezionare, stravolgere), gli faranno critiche su un’opera a tutti gli effetti conclusa. Il cambio di prospettiva è notevole, direi radicale. 


Prevengo in parte la valanga di critiche che mi verrà rivolta, prima fra tutte farmi notare come nella maggior parte dei casi il dialogo fra autore ed editore a cui faccio riferimento non esista, la protesta di chi si dichiara disposto alla messa in discussione del proprio lavoro ma si trova ad affrontare invece la completa indifferenza. Posto che, in un momento storico nel quale proliferano riviste on line, blog letterari, medie, piccole, microscopiche case editrici, forum di discussione e così via, la mancanza assoluta di responso sui testi mi appare sempre più difficile da credere (in altre parole, siamo sicuri che questi autori abbiano idea di dove andare a cercare un confronto?), quello che voglio mettere in discussione è il processo logico che ne scaturisce: nessuno mi risponde, quindi mi pubblico da solo. A me sembra che in questo passaggio di democratizzazione assoluta (lo scavalcamento del rapporto con un editore consolidato, tutti che diventano editori di se stessi) sia la qualità del testo a farne le spese: non esistono più standard minimi, esiste solo il desiderio di essere sul mercato.


lunedì 27 gennaio 2014

PRIMA CHE ARRIVI ANTONELLA

Giovedì 30 gennaio alle ore 19 alla libreria Gogol & Company in via Savona 101 a Milano, presenterò insieme ad Alcide Pierantozzi, il romanzo “Prima che tu mi tradisca” di Antonella Lattanzi, un libro molto bello, intenso, dalla scrittura eccezionale. Per annunciare l’evento ho voluto fare un’intervista all’autrice: da queste risposte già si può intuire che sarà un incontro interessante. Vi invito a partecipare.



E’ difficile dire esattamente di cosa parli “Prima che tu mi tradisca”: è una storia familiare, è un romanzo di formazione, è un ritratto sociale dell’Italia del sud degli anni ’90, è il rapporto di odio/amore di due sorelle... Tu come lo definiresti?
Per me è tutto questo. Severino Cesari [editor di StileLibero Einaudi, ndr] l’ha definito un “libro mondo”, e per me è la definizione più bella che può essere data a questo libro. A differenza del mio primo romanzo, Devozione, che si reggeva su un tema principe - l'eroina, ma più in generale la dipendenza - attraente e respingente allo stesso tempo, Prima che tu mi tradisca si regge solo sulla scrittura, sulla storia, sui personaggi, sull’atmosfera: se funzionano il libro regge, se no si accartoccia se stesso. Prima che tu mi tradisca è, per me, come la vita: ha tanti temi diversi. Per me i romanzi sono tutti una storia d'amore e un giallo: anche quando nessuno è morto davvero, pure c’è sempre qualcuno che in qualche modo è stato ucciso, e una delle domande principe è sempre chi l’ha ucciso e perché. Lo stesso vale per l’amore. Prima che tu mi tradisca è una storia di amori, di tradimenti, e un giallo, un noir. La storia di due donne, Angela Junior e Michela, che per accidente sono sorelle, e che si spostano tra Bari e Roma, gli anni 90 e i 2000, la realtà, l'irrealtà, il fantastico e la Storia, il razionale e l’irrazionale, nel tentativo di essere felici e di rispondere alla domanda: cos'è accaduto nella loro infanzia di tanto terribile da far deflagrare le loro vite e cambiarne il corso dell'esistenza? Cosa succederà, ora?

E’ un libro tutto al femminile: la relazione difficile della protagonista, Michela, con sua sorella e sua madre (entrambe di nome Angela) e l’ambivalente rapporto con l’amica Silvia. Allo stesso tempo, soprattutto nella prima parte, di femminile c’è ben poco: zuffe, motorini, fughe, sfide. Mi verrebbe da usare una definizione da elementari: Michela è un maschiaccio, no? 
Gli uomini e le donne di questo romanzo hanno personalità molto contraddittorie. Michela aspira a essere una donna seducente e intelligente come sua sorella maggiore Angela Junior, ma è ancora una bambina e, anche quando cresce, non riesce ad assestarsi in un'unica personalità, non riesce a diventare la donna che voleva essere. Non so se è un maschiaccio, ma di sicuro è il prodotto, anche, del quartiere e del tempo in cui vive, dove se non sei violento sei, di sicuro, almeno molto affascinato dal violento. 

Io ho l’impressione che il vero protagonista di questo libro sia la città di Bari, che infatti è continuamente evocata (e in ogni senso: ammirata, insultata, difesa, distrutta, analizzata). Un po’ come a dire che questa stessa storia, senza Bari intorno, non avrebbe mai potuto esistere. Mi sbaglio?
Non ti sbagli per niente. Per me le città sono sempre personaggi attivi e veri dei romanzi. E, più in generale, per me le città, i luoghi, ma anche gli oggetti, sono vivi. Non si vive a Bari come si vive a Milano, né si vive a San Lorenzo come si vive a Prati (sono due quartieri di Roma). Per me, parafrasando quello che diceva Calvino, un romanzo (lui diceva un classico) è quel libro che parla anche di te. È questo che vorrei per i miei libri: che parlassero anche di te. Che raccontando Bari io riuscissi a raccontare tutte le città e le loro zone oscure, ma anche il tuo sud, il tuo “luogo dell'origine”; che raccontando Roma potessi raccontare tutte le metropoli grandi, seducenti, respingenti, ma anche l'idea di diventare grande che s’infrange contro la realtà di diventare grandi. Per me una storia dettagliata, narrativa, piena di immagini e fatti è paradossalmente l'unica in grado - se è riuscita - di raccontare mondi, persone, luoghi molto distanti da sé, mentre una storia generica non può farlo.

In questo senso che rapporto hai con gli altri autori baresi (Gianrico Carofiglio, Nicola Lagioia, Valerio Millefoglie)? Intendo dire, ti sei confrontata con il modo in cui loro hanno descritto Bari nei propri romanzi? (Ricordo che nel suo primo libro anche Millefoglie parlava di topini e di inseguimenti, per esempio...)
Millefoglie non l'ho ancora mai letto, ma sono molto curiosa di farlo. Per quanto riguarda Carofiglio e Lagioia, abbiamo modi molto differenti di raccontare Bari. Così come ci sono tantissimi autori che raccontano Roma, Milano, New York. Penso che ciò che accade per l'amore, per le persone, per il tempo, sia vero anche per i luoghi: ogni volta che qualcuno racconta, che ne so, anche una cosa così apparentemente banale come il cielo lo racconta in modo diverso; o l'amore; lo stesso vale per i luoghi. Lagioia in particolare in una parte di Riportando tutto a casa ha raccontato Japigia. Ed è stato molto affascinante per me vedere come la raccontava lui, che la viveva come il luogo buio della città, il passaggio dalla luce del centro al buio dello spaccio e della periferia violenta, e come invece lo percepivo io, che ci sono nata e cresciuta, e che dunque vivevo Japigia come "casa". 

La differenza sostanziale, a mio avviso, rispetto al tuo primo romanzo, Devozione, è che qui tu dimostri di maneggiare con molta sicurezza la narrazione. Ci sono forti salti temporali (dall’infanzia di Michela alla sua adolescenza sino alla sua vita adulta) e particolari decisivi che scegli di dosare nelle rivelazioni. Ancor di più mi sembri rafforzata nell’uso dei dialoghi, che a volte coinvolgono più persone e che risultano comprensibili al lettore anche se spesso tu non specifichi chi stia parlando. Come sei arrivata a questo risultato? E’ frutto di tante riscritture o di una tua maturazione professionale?
Grazie Matteo, mi fa davvero felice quello che scrivi. In realtà non so dire con certezza, se qualcosa è riuscito nel mio romanzo, perché è riuscito. Io spero che sia per entrambi i motivi: per il lungo lavoro (quattro anni di scrittura e riscrittura, ma in realtà era da sempre che ci pensavo e che studiavo i luoghi, le persone e gli eventi storici che volevo raccontare) e per la maturazione. Devozione era il mio primo romanzo, la prima volta in cui mi cimentavo in una materia così delicata, e dunque ho dovuto lavorarci cinque anni, tra le altre cose anche per capire come si scrive un romanzo. Con Prima che tu mi tradisca non è che sapessi come si scrive un romanzo - questo credo non lo saprò mai, lo dovrò scoprire ogni volta - ma avevo raggiunto delle piccole conquiste. Il mio scopo è veramente tentare sempre di migliorarmi, penso sia uno dei motivi per cui valga sempre la pena di impegnarsi così tanto per la scrittura, per cui quelle conquiste le ho messe da parte e ho tentato di inventare una nuova lingua, un nuovo ritmo, un nuovo modo di scrivere che si confacesse a questo romanzo e a nessun altro. Per me ogni scena, ogni personaggio ha bisogno del suo modo di scrivere, della sua lingua, del suo ritmo narrativo: per questo in Prima che tu mi tradisca si passa spesso dalla prima alla terza persona, e anche la prima persona è di volta in volta lo sguardo di personaggi diversi, Michela, Angela – le due protagoniste del romanzo – ma anche il loro padre o altri personaggi. Per quanto riguarda i dialoghi: io li adoro. Scrivere un dialogo che sia realista non vuol dire scriverne uno verosimigliante, anzi, tutto il contrario. È una bella sfida, ma se ti riesce è molto eccitante. Cerco sempre, in generale, quando scrivo, di uscire dalla mia testa, dal mio corpo, dal mio carattere, dalla mia personalità, dal mio tempo, dai miei luoghi: per calarmi nei luoghi, tempi, corpi, caratteri che voglio raccontare. È una delle possibilità della scrittura che mi affascina e mi seduce di più.

Una caratteristica della tua scrittura è l’ossessività: ci sono scene nelle quali ti immergi per pagine e pagine, quasi dilatando lo spazio e il tempo, sviscerandole fin nel più piccolo dettaglio. Penso per esempio al primo incontro tra Michela e Silvia, il tragitto in motorino fino a casa di Silvia. Piccoli eventi quotidiani che diventano quasi un’epopea che occupa svariati capitoli. Cosa ti affascina di certi episodi al punto da farli diventare così importanti? 
Come dicevo prima, per me ogni scena ha bisogno del suo ritmo, del suo linguaggio; e dunque anche del suo spazio. Quando scrivo, ho sempre, di volta in volta, in testa la scena come fosse realmente accaduta: vedo i rumori, i suoni, i pensieri dei personaggi, gli odori, e anche tutto ciò che di intangibile e irrazionale e super-razionale c’è in ogni scena. Il difficile – anzi, il difficilissimo – è tradurre tutto ciò in parole. Come sempre del resto, quante volte diciamo: non riesco a spiegarti quello che vorrei dirti. Nella vita reale, spesso non riuscire a dire ciò che vorremmo o non riuscire a capire ciò che qualcuno vuole dirci ci fa del male: da ciò nascono incomprensione, solitudine, rancori. Nella scrittura è lo stesso: se non riusciamo a tradurre in parole, in segni, le scene che abbiamo nella testa, è la tragedia. Per me la scrittura narrativa è anche scrittura per azioni, per fatti: cerco il più possibile di raccontare ciò che succede, lasciando che sia il lettore a creare le emozioni, a tirare le somme, a mettere le lacrime o il riso in ciò che scrivo: il lettore creatore insieme allo scrittore, che riempie gli spazi bianchi lasciati dallo scrittore e li anima, è il mio ideale. Ci sono scene, allora, che vanno raccontate in un soffio. Sul finire del primo capitolo, per esempio, racconto decenni in un paragrafo. Altre invece – anche per il tipo di montaggio che uso (flashback, flashforward, inserti temporali, associazioni per analogia, contemporaneità eccetera) – hanno bisogno di più tempo, di più spazio. Mi sembra sempre di star vedendo un film, mentre scrivo: la complessità dunque non è nelle singole scene, che devono essere il più semplice possibile, ma nel loro montaggio. È nel montaggio che sta la narrazione, che sta il ritmo e lo stile di un romanzo. L’ossessività dovrebbe essere dato da questo, come la leggerezza e il comico o l’ironico in altri momenti del romanzo.


Questo non è un libro autobiografico, eppure, come Micky nel romanzo, anche tu hai una sorella e una madre che si chiamano entrambe Angela. Come hanno preso questa coincidenza? Ti parlano ancora?

Non vedevo l’ora di rispondere a questa domanda! Mia madre e mia sorella hanno detto: questa è la cosa meno autobiografica che hai scritto. Considerando che il mio precedente romanzo, Devozione, parla di due eroinomani… Però capisco cosa vogliono dire (o almeno spero!). Per scrivere, in Devozione, di un tema e un mondo così lontano da me, come quello dell’eroina, oltre che studiare tantissimo e calarmi nel mondo che volevo raccontare (mi sono finta tossica per mesi, sono stata a Secondigliano, sono stata nei sert dichiarandomi tossicodipendente eccetera), ho dato a Nikita, la protagonista del romanzo, tanto di me: la passione per la danza e per la scrittura, per esempio, lo studentato di San Lorenzo in cui ho vissuto anche io, alcune caratteristiche del suo fidanzato Pablo (catanzarese come il mio fidanzato del tempo). Mentre con Prima che tu mi tradisca di autobiografico ci sono solo dettagli – per esempio, anche mia sorella e mia madre si chiamano Angela (motivo in più per non parlarmi!), ma questo nome mi piace troppo, non ci potevo rinunciare – o certi luoghi. Per esempio Japigia, quartiere protagonista della prima parte del romanzo, nonché quartiere in cui sono nata e cresciuta, e dove ancora oggi vivo quando vado a Bari a trovare i miei – con molto orgoglio. La storia, invece, la trama, i personaggi sono tutti inventati. Questo perché fare autobiografia non mi è mai piaciuto. È così bello inventare storie. È così bello creare personaggi che diventano persone (o almeno provarci). Poi, però, quando ho finito di scrivere questo romanzo, e ho cominciato a parlarne, ho capito una cosa che non sapevo. Quando avevo diciotto anni, di colpo, mia sorella ha deciso di avere un figlio. Dal giorno alla notte veramente non avevo più una sorella. Io ero ancora una ragazzina e lei era diventata una donna. Se n’è andata di casa. Ha smesso di essere “mia amica”. Ecco, io credo che tra i motori di questo romanzo ci sia proprio questo abbandono – o almeno, è così che l’ho percepito io al tempo: mia sorella non è mai scomparsa, è rimasta sempre a Bari, e ha una vita per fortuna molto più serena di quella di Angela Junior; ma per me è scomparsa, di colpo, un pomeriggio di tanti anni, quando stavo per compiere diciotto anni e la amavo come non ho mai più amato nessuno (e la amo ancora; ma è sempre stato un amore travagliato, doloroso, come tutti i miei grandi amori).




martedì 21 gennaio 2014

#SELF CONTROL

Debutta questa settimana on line “#self”, una nuova rivista di narrativa, creata e diretta dallo scrittore e giornalista Alberto Forni, un nome certamente già noto a chi legge questo blog. Alberto, oltre a essere stato insieme a me uno degli autori della trasmissione “Dispenser” di RadioDue RAI, alcuni mesi fa ha fondato il sito iltuoebook.it, divenuto in breve uno dei punti di riferimento per gli autori che si rivolgono al mondo del digitale. 
Per capire meglio di che rivista si tratta gli ho alcune domande:  



Cos’è #self?
#self è una rivista digitale di racconti, provenienti perlopiù dall’universo del self-publishing, di cui è appena uscito il primo numero.


Perché hai deciso di fare questa rivista? In cosa si differenzia dalle altre?
L’idea mi è  venuta di ritorno dal primo Self-Publishing Festival che si è tenuto a ottobre a Senigallia. In quel contesto ho percepito un così grande entusiasmo e voglia di fare che mi sono lasciato trascinare. Anche perché la differenza con il mondo editoriale, diciamo così, “ufficiale” – che negli ultimi tempi non brillla certo per entusiasmo – era davvero tangibile.
Devo poi dire che sono da sempre un appassionato dell’autoproduzione, tanto che già nei primi anni Novanta mi ero fatto catturare dall’idea che con un computer, uno scanner e una stampante laser ci si potesse fare un piccolo prodotto editoriale in casa. Adesso il cerchio si chiude, visto che anche la distribuzione e la vendita possono avvenire “in proprio”. Quella del digitale è una grande rivoluzione, ma rimane un mezzo, poi ci vogliono le idee. 
Da un certo punto di vista #self non è diversa dalle altre riviste di narrativa, la discriminante è forse il fatto di tenere conto del fenomeno del self-publishing – rivolgendosi proprio a quel serbatoio – che da una parte concede grande libertà e duttilità, dall’altra crea scompiglio in un mondo in cui le strade per arrivare alla pubblicazione, fino a pochi anni fa, erano ben definite.


Con che criterio hai scelto i racconti del primo numero?
Devo dire che si sono scelti da soli. Nel senso che a un certo punto è stato chiaro quali racconti emergevano sugli altri, a prescindere dai gusti personali. Metà dei testi arrivati era abbastanza improponibile, si trattava di racconti molto letterari, o scolastici, con tutti i difetti che chi frequenta i manoscritti conosce bene. Poi c’erano alcuni testi che non erano convincenti ma la cui scrittura mostrava comunque delle qualità: a queste persone ho scritto dicendo di mandarmi altro in futuro. Alla fine sono stati scelti otto racconti. Anche qui non tutto è dello stesso livello, ma risulta evidente che l’approccio di questi autori è scaltro, consapevole, per nulla dilettantistico.


Quanto conta l’esperienza del sito iltuoebook.it nella realizzazione del progetto #self?

Conta perché mi ha permesso di esplorare questo strano universo, di venire a contatto con diversi scrittori indipendenti e con i loro testi, di farmi un’idea generale del materiale che circola, di osservare quali sono i diversi approcci dei self-publisher. Ormai, quando vedo una copertina o leggo una sinossi so già cosa aspettarmi e difficilmente sbaglio. È chiaro che nel magma del self-publishing si riversa tutta una serie di testi di scarsa qualità ma è anche chiaro che non si può ridurre tutto alla trafila editoriale tradizionale con i progetti sempre a lunghissimo termine, il problema della visibilità e della promozione e poi questa modalità ormai preistorica di spostare qua e là migliaia di libri per poi mandarne la maggior parte al macero. Chiaramente il digitale e il self-publishing non sono la risposta a tutto e buttare un libro autopubblicato in mezzo ad altre migliaia significa comunque condannarlo all’anonimato. Però cominciano a esserci anche alcune esperienze interessanti di autopubblicazione, cioè testi validi che sono riusciti a trovare un loro pubblico. Non è tutto oro, ma neanche tutta fuffa.


Che consigli daresti a chi vuole proporre testi per il prossimo numero?
Di mandarli, ovviamente. E magari di leggere i post sul primo numero della rivista e sul progetto in generale per farsi comunque un’idea.


Dove si può trovare #self?

Si può trovare online (scaricabile anche in formato pdf) su Issuu. Poi su Amazon e sui principali store digitali come ad esempio Ultima Books o Bookrepublic. Sempre gratuitamente.


lunedì 20 gennaio 2014

OSSERVAZIONI DI UN MILANESE (2)

Una delle mie personali fisse, da anni, è lo stato della stazione metropolitana di Milano Centrale. La porta d’ingresso della città per centinaia di migliaia di visitatori annui è conciata peggio di una stazione periferica da Terzo Mondo: impalcature da lavori in corso, neon preistorici, pavimentazione in gomma sbrindellata, vicoli ciechi, olezzo di fogna e via dicendo. Facendo un paragone con un’altra fermata (qualsiasi) della rete urbana mi è sempre sembrata la peggiore, e questo sin da quando ero ragazzino. Di recente sono stati fatti lavori di rimodernamento dell’altra stazione, quella ferroviaria: pavimentazione in marmo, scale mobili e camminamenti elettrici, spazi commerciali, biglietterie tradizionali e biglietterie automatiche. Tutto nuovo, tutto bello. Il che però rende ancora più traumatico il passaggio da una all’altra: basta spostarsi dalla superficie al sotterraneo per abbandonare lo sfarzo e trovarsi nello scenario di un thriller ambientato in periferia di Bucarest. Uno shock per il turista, immagino. A tutta evidenza però, se da decenni nessuna amministrazione comunale si è posta il problema, deve essere solo una mia distorta visione della realtà. 
Ora però c’è un altro aspetto che mi affascina e riguarda le indicazioni segnaletiche. Se vi capita, vi invito a fare un esperimento. Uscendo dai tornelli della metropolitana, seguite il percorso indicato per raggiungere i treni: vi porterà a una piccola scala mobile che conduce a un breve corridoio a desta e a sinistra del quale si estendono due lunghi camminamenti elettrici che riemergono in superficie, in corrispondenza alle due massicce entrate laterali della stazione ferroviaria. Giunti a questo punto vi troverete due enormi scalinate in marmo che salgono verso il piano successivo, quello dove partono i treni, e un corridoio centrale. Un cartello in cima al corridoio indica: “Biglietterie - Ticket counters”. Immaginatevi di essere un turista che, come spesso capita, è già in possesso del biglietto (anche perché probabilmente starà tornando verso casa). A quel punto cosa pensereste? Quello che, inevitabilmente, pensano quasi tutti: che il corridoio conduca solo alle biglietterie e che per prendere il treno sia necessario salire quelle scale. Quindi, magari pieni di bagagli, affrontereste la salita. L’esperimento che vi invito a fare è di mettervi in quella posizione e osservare quanti turisti (ma anche signore anziane, famiglie, ragazzi con gli zaini, mamme con bambini al collo) si imbarcano di malavoglia lungo la scalinata. Sono centinaia.  
In realtà, percorrendo pochi metri all’interno del corridoio, c’è un secondo cartello, giallo, di grandi dimensioni e completamente invisibile dall’ingresso che riporta l’indicazione “Ai treni - To trains”. All’ignaro turista sarebbe bastato percorre cinque metri per scoprire gli scorrimenti elettrici che avrebbero portato lui e i suoi bagagli comodamente fino al piano delle partenze.
Quello che io mi chiedo è: chi ha deciso di mettere il cartello in quella posizione insensata? Come si è potuta approvare questa scelta? Inoltre, chi è il genio che ha deliberato di fare due cartelli separati per indicare Biglietterie e Treni, sebbene fossero nella stessa direzione? Perché a nessuno viene in mente di controllare a cosa è dovuto quel flusso assurdo di viaggiatori che decide di farsi le scale a piedi anche quando è più carico di un portantino, ignorando le pratiche scale mobili? 
Ma soprattutto, perché io mi metto a osservare queste cose invece di farmi i fatti miei?

(Grazie Georges Perec, belle abitudini che mi hai inoculato).


venerdì 17 gennaio 2014

OSSERVAZIONI DI UN MILANESE (1)

Ogni tanto mi capita di prendere l’autobus 73X, la linea diretta che collega il centro di Milano con l’aeroporto di Linate con una sola fermata intermedia. Quasi sempre assisto alla stessa scena: turisti carichi di valigie che arrivano un po’ spaesati chiedendo all’autista, in inglese, notizie sull’acquisto del biglietto. In tutti i casi in cui questo avviene l’autista in questione non parla la lingua, si limita quindi a ripetere “Ticket” e a indicare in modo vago verso i portici di Corso Europa accanto al capolinea del bus. Quello che intende far capire con quel gesto è che il biglietto si acquista all’edicola, che però è situata in una piazzetta a una cinquantina di metri dalla fermata e che da quella posizione risulta invisibile. A volte la questione viene risolta da altri viaggiatori che intervengono e fanno da interpreti, come è capitato anche a me di fare, altrimenti il risultato è sempre il medesimo: il turista confuso che cerca di capire cosa gli indichi quel braccio puntato e che comincia ad aggirarsi sotto i portici con l’ansia di riuscire a trovare il senso di questa assurda caccia al tesoro prima che il mezzo riparta. In genere non ce la fanno mai: fra il tempo di individuare l’edicola e quello per tornare indietro il bus è partito. 
Durante le feste ho assistito a un’altra scena, questa volta in tram. Una coppia di pensionati tedeschi che dovevano aver fatto confusione coi biglietti e viaggiavano con un tagliando scaduto anche se avevano nel portafoglio altri biglietti ancora da timbrare che mostravano al controllore. I due, che parlavano un discreto inglese, cercavano di spiegare che dovevano aver sbagliato nel passaggio fra metropolitana e tram. Il controllore, una donna affabile che ha capito la situazione, voleva comunicare loro che avrebbero fatto meglio ad acquistare un biglietto giornaliero, così da timbrarlo una sola volta e non pensarci più. Dava loro questa informazione inutilmente in italiano, poi cercava di condensarla nel maccheronico tentativo di: “Ticket today”. L’espressione che stava cercando era “Daily ticket”, ma ignorandola ripeteva l’insensata formula di “Ticket today” nella speranza che producesse qualche senso mentre i due pensionati scuotevano la testa confusi.
Non si può pretendere che gli impiegati delle linee pubbliche si mettano a studiare una seconda lingua, ma quando avvengono questi fatti io mi chiedo sempre la stessa cosa: non sarebbe meglio per tutti se quattro nozioni basic gli fossero impartite? Lo dico anche nel loro interesse, per evitare questi momenti insensati e imbarazzanti in cui la comunicazione risulta impossibile e che si risolverebbero subito ripetendo una o due semplici formule. All’ATM nessuno ci ha mai pensato? In una città come Milano invasa dagli stranieri, anche solo per la faccenda moda?
Mi chiedo anche come possano gli stessi conducenti e controllori a non sentirne l’esigenza. Se io fossi un autista del 73X alla centocinquantesima volta che un turista mi chiedesse in inglese dove acquistare un biglietto imparerei la risposta a memoria anche solo per esasperazione, per togliermi questo fastidio. Questi guidatori avranno dei figli che studiano inglese a scuola? Non gli è mai venuto l’istinto di chiedergli: - Come cazzo si dice “All’edicola all’angolo”? -. Perché io al loro posto davvero non potrei farne a meno.


mercoledì 15 gennaio 2014

VANONI NON VANONI

Un paio di mesi fa sono stato contattato dall’amico Bengi, cantante della band dei Ridillo, che stava lavorando a un suo album solista. Mi ha parlato di un progetto di “modernariato musicale” ispirato alla melodia italiana e mi ha chiesto se avessi voglia di scrivere dei testi per alcune canzoni di cui al momento esisteva solo la base. Mi ha quindi inviato alcuni demo da ascoltare e fra questi ce n’era uno intitolato “Vanoni”. Chi lavora in ambito musicale sa che molto spesso ai demo vengono attribuiti nomi del tutto indicativi. Quasi sempre servono all’autore solo per distinguere il brano fra le decine di quelli archiviati, talvolta invece alludono vagamente al sound del pezzo, pertanto è normale trovare nei cassetti dei compositori tracce chiamate “Beatlesiana”, “Alla Battisti” o cose del genere. Anche nel caso di “Vanoni” si trattava di un’indicazione sul sapore musicale del pezzo, che ricordava gli anni d’oro di Ornella. Malgrado ne fossi consapevole, ho deciso di prendere il titolo alla lettera e nel giro di qualche ora ho scritto il testo per la canzone “Vanoni”. Quando Bengi si è visto arrivare un testo con lo stesso titolo del demo si è messo a ridere: non se l’aspettava proprio. 
E comunque, il brano è stato scelto come primo singolo dall’album ed esce oggi, sia sugli store digitali che in vinile 45 giri (sono entusiasta della scelta del vinile, ovvio). La copertina è un’adorabile ripresa della grafica dei dischi della serie “Formula 3” della RCA degli anni ’70, che ben suggerisce il sapore dell’operazione musicale.
A giorni sarà on line anche il video, intanto ecco un piccolo teaser: https://www.youtube.com/watch?v=Ri7-KPEa00o



lunedì 13 gennaio 2014

PROVE DI VITA

Da qualche settimana è on line un interessante progetto lanciato dalla scrittrice Violetta Bellocchio. Si intitola “Abbiamo le prove” e le ho fatto una breve intervista per presentarlo ai lettori di questo blog.

Cos’è “Abbiamo le prove”? Come lo racconteresti a chi non lo conosce?
È una piccola rivista online che pubblica solo storie vere, scritte dalle donne a cui sono successe: il genere si può chiamare "nonfiction personale". 
A me oggi (gennaio 2014) piace pensarlo come un disco degli One Direction dove metà delle canzoni sono ambientate in una corsia di pronto soccorso alle tre di mattina. 

Perché questo titolo?
Alla fine a me faceva meno schifo di altri possibili candidati ("Storia Vera", "Quella volta che..."): tieni conto che il nostro primo template "di servizio"  - quello che usavo per verificare  come si vedevano i pezzi, le foto eccetera - per due settimane era una sequela ininterrotta di GIF animate (ce n'era una di James Franco in Spring Breakers che infesta ancora i miei sogni), per cui il mio concetto di "fare meno schifo rispetto a..." è piuttosto personale.  

Perché hai deciso di avere solo collaboratrici donne?
Volevo vedere se era impossibile mettere su una cosa di donne che non gravitasse intorno ai BAMBINI, alle unghie e ai consumi considerati "tipicamente femminili". No, non è impossibile. 
È fattibile e divertente. 
Aggiungo questo: cercare SOLO autrici donne mi ha portato (e mi porta) a leggere più persone, a mettermi in contatto con persone che non conoscevo direttamente (come Nadia Terranova, che oltre a scrivere legge con me); forse potrebbe aver convinto alcune persone a farsi avanti, proprio perché da noi non scrivevano i soliti dieci opinionisti maschi, ma questo ce lo dovrebbero confermare le autrici. È solo una mia impressione non provata da nulla, insomma. 

Cosa significa oggi aprire una rivista on line?
Scoprire che di persone di talento in giro ce ne sono, e scoprire che parecchie di loro sono in grado di mantenere sempre una soglia minima di civiltà. È molto piacevole. Per me lo è, almeno. 

“Abbiamo le prove” pubblica una nuova testimonianza ogni giorno. Mi sembra una periodicità molto impegnativa. Riuscite a tenere fede a questa scadenza quotidiana o è difficile? 

Due cose: uno, io non ho figli, quindi il tempo lo trovo, due, sono una fortissima sostenitrice del "cassetto profondo", per cui la cosa migliore è sempre avere una scorta di storie nuove (e preparare un calendario di massima con qualche settimana di anticipo).