Domenica su L'Unità è uscito questo mio articolo. Lo ripropongo qui.
Eccolo dunque il figlio negletto, l’ultimo della lista, il rinnegato. Ora che è uscito in italiano non posso continuare a fare finta, devo affrontarlo. Sì perché questo “Il ladro di gomme” (ISBN, 17,50 euro) rappresenta per il suo autore un punto oscuro, almeno per quanto concerne il suo percorso italiano. Va detto che la vicenda editoriale di Coupland nel nostro paese è stata accidentata come poche. Un po’ come la bella del liceo, che è stata a letto con tutti ma nessuno ha voluto sposare, l’autore canadese è stato pubblicato da una miriade di case grande e piccole: Leonardo, Marco Tropea, Mondadori, Feltrinelli, Frassinelli, fino ad avere trovato (finalmente) una collocazione stabile da alcuni anni presso ISBN. E forse non è un caso che uno scrittore così anomalo, che parla di sensitive e regine di bellezza, di carneficine nei licei e della vita fra gli impiegati della Microsoft, di apocalissi nei bar degli aeroporti e di ragazze cadute in coma giusto lo spazio di un decennio, si sia sistemato con la casa editrice italiana più attenta ai fenomeni culturali alternativi, quella che pubblica saggi di Thurston Moore degli Sonic Youth sul fascino delle audiocassette o una confessione di Martin Amis sulla propria dipendenza da videogiochi. Tornando però al tortuoso percorso italiano del nostro autore, malgrado le etichette con cui i suoi romanzi venivano editati cambiavano di continuo, la sua intera produzione è sempre arrivata più o meno puntuale sugli scaffali delle librerie. Almeno fino a questo “The gum thief”, uscito in America nel 2007, i cui diritti, all’epoca, non erano stati comprati da nessuno.
Perché?
Difficile dirlo in un contesto così confuso, ma certo alcune tiepide recensioni straniere e i commenti in rete di scarso entusiasmo non offrivano lo stimolo ideale perché un nuovo editore se ne innamorasse. L’idea che nessuno si azzardasse a pubblicarlo però faceva paura. Gli stessi aficionados di Coupland (il sottoscritto, in primis) provavano un sentimento di reticenza nei suoi confronti, mossi dallo spettro della delusione. In sintesi: ho comprato l’edizione americana ma non ho mai avuto il coraggio di leggerla.
Ora però che la traduzione (firmata da Tiziana Lo Porto) è disponibile, scopro che quei timori erano del tutto infondati.
Cominciamo dall’impianto narrativo: “Il ladro di gomme” è un piccolo campionario di scritture possibili. Contiene lettere, appunti, pagine di diario, capitoli di romanzo (nel senso di un altro romanzo), abbozzi di racconti, note. L’escamotage è il seguente: i protagonisti, Roger e Bethany, parlano fra loro scambiandosi messaggi, dapprima scrivendo sullo stesso diario, poi Roger mostra a Brittany gli estratti di un libro che sta tentando di scrivere, poi la madre di Brittany si intromette inviando una lettera... poco a poco il lettore entra in questo gioco di scambi e parte del piacere sta anche nello scoprire con quale mezzo i personaggi comunicheranno nel capitolo successivo. Strutturalmente un azzardo, anche per un autore abituato a sperimentare (resta magistrale in questo senso il pastiche fra il Decamerone contemporaneo e un dizionario del futuro che era il suo esordio “Generazione X”, tanto riuscito da marchiare a fuoco un’intera generazione sino a quel momento priva d’identità). Un coro polifonico di cui Coupland riesce benissimo a dosare le parti e, malgrado la varietà di materiali messi in gioco, il meccanismo scatta con precisione tale da non trarre mai in difficoltà.
In questo senso, “Lo stagno del guanto”, il romanzo dentro il romanzo, di cui il lettore segue la cui progressione parallelamente alle vicende del libro, rappresenta un trucco pienamente riuscito: al termine si ha l’impressione di aver letto in contemporanea due romanzi (cosa che, in fondo, è davvero avvenuta).
Se la forma è quella di una combinazione a orologeria, il contenuto è una rappresentazione del tipico mondo-Coupland, sin dal luogo dove si svolge, un anonimo (e pressoché) inutile grande magazzino di articoli da cartoleria nel quale si intrecciano le vite e i dialoghi pungenti di vittime sacrificali della società contemporanea: la ragazzina che veste dark per camuffare il suo senso di inadeguatezza, il quarantenne che si sente già ampiamente fallito e non ha alcuna prospettiva di fronte a sé se non quella di tenersi stretto il posto da commesso, la madre incapace di rappresentare un modello positivo per la figlia, i colleghi meschini e invidiosi... Qui, più che in altri suoi libri, però l’autore sembra lasciarsi andare a una dose maggiore di pessimismo, o meglio, di sfrontatezza nei confronti della sofferenza: non si limita a fotografarla con qualche immagine di desolazione pop illuminata al neon e accompagnata da battutine acide. Vi si immerge proprio, la chiama col suo nome, sceglie di raccontarla. Del resto Roger non ha solo un matrimonio fallito alle spalle, ma anche un figlio piccolo morto in un incidente stradale, il suo essere costantemente sul punto del crollo emotivo è comprensibile, e profondamente umano.
Ecco allora che l’intero romanzo si rivela essere un duplice omaggio alla scrittura: attraverso le sue forme e attraverso il suo potenziale. Se si intravede nel finale una timida possibilità di riscatto è perché la lunga corrispondenza fra i protagonisti li ha aiutati a comprendersi e sostenersi a vicenda, così come il manoscritto che Roger tira fuori dal cassetto e riesce a proseguire è forse il primo segnale concreto di una sua rinascita. Scrivere come atto salvifico. Scrivere a mano, addirittura. Lettere, addirittura. Quasi una svolta per un autore quale Coupland, paladino dell’innovazione tecnologica come nessun altro.
Ma se è vero che la grandezza sta nei particolari, allora lasciamo perdere le considerazioni generiche e concentriamoci sui dettagli. Prendiamo per esempio il terzo capitolo, con la voce narrante di Roger, ed estrapoliamolo come se fosse un racconto (si può fare perfettamente). Ci colpisce subito, a partire dal potente incipit: “Dolore! Il dolore è in ogni dove - un livido che non si fa mai giallo e non sbiadisce, un’erbaccia che uccide il raccolto. Il dolore è una persona anziana, che è morta sola in una stanzetta di merda. Il dolore è vivo, è nelle strade e nei centri commerciali. Il dolore è nelle stazioni spaziali e nei parchi a tema. Nel Cyberspazio, nelle Montagne Rocciose, nella Fossa delle Marianne. C’è così tanto dolore”. E prosegue col resoconto di come il protagonista abbia incontrato quella che diventerà la sua compagna e la madre dei suoi figli, nello studio di una chiromante che invece di predirgli il futuro ha sezionato brutalmente il suo passato, rimproverandolo per il suo pessimo carattere, causa principe dei suoi errori. La donna che si innamorerà di lui lo conosce così, un concentrato di debolezze, e il capitolo si chiude con due righe che sintetizzano tanto il presente di Roger, quanto le reali capacità di preveggenza della sensitiva.
E’ un racconto perfetto e da solo cancella per sempre - almeno per me - il marchio d’infamia con cui troppo a lungo, e ingiustamente, questo romanzo è stato bollato.
Splendida recensione!
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