giovedì 30 gennaio 2014

EDIZIONI FAI-DA-TE

Ieri ho pubblicato sul quotidiano on line Linkiesta una riflessione sui rischi del self-publishing. La riporto anche qui di seguito.

IL RISCHIO DI DIVENTARE EDITORI DI SÉ STESSI

Da tempo mi occupo di esordienti, in qualità di consulente di case editrici e curatore di riviste letterarie, e come tutti seguo con interesse il dibattito sull’evoluzione dell’editoria chiamata a confrontarsi con le nuove prospettive aperte dal digitale. 
Di recente mi è capitato di leggere la significativa testimonianza della blogger Loredana De Michelis, che riesce ad evidenziare in maniera sintetica ed efficace i limiti che il sistema attuale del mercato dell’ebook comporta (classifiche di vendita manipolabili, recensioni fasulle, trucchetti di autopromozione), ma allo stesso tempo bene illustra sia i percorsi che portano un esordiente a scegliere la strada della pubblicazione in digitale, che gli errori che è portato a fare (refusi, scelta casuale della copertina). Interessante è anche la disinvoltura che Loredana evidenzia nella scelta dei materiali da mettere sul mercato (“Scovo una raccolta di lettere che avevo scritto da Londra... Ecco un altro possibile ebook già pronto”): un approccio nei confronti del concetto di “pubblicazione” che fino a qualche tempo fa sarebbe stato impensabile. 
Questo articolo mi ha fatto riflettere sulla mia esperienza personale di scouting e su alcuni eventi recenti. Già diverse volte mi è capitato un episodio di questo genere: qualcuno mi manda un testo in lettura, io gli scrivo facendogli le mie osservazioni e come risposta ricevo una mail sulla falsariga di: “Grazie, ma intanto ho deciso di farlo uscire in e-book. Non avevo voglia di aspettare troppo a lungo le risposte degli editori”. In alcuni casi questo scambio avviene nel giro di qualche settimana: l’autore in questione non ha avuto la pazienza di aspettare neanche un mese

A me sembra che una scelta come l’autopubblicazione in ebook per un esordiente comporti due conseguenze, diciamo una ‘esterna’ e una ‘interna’. Quella esterna è l’ovvio effetto da intasamento anonimo, l’ennesimo e-book di sconosciuto a 0.99 euro in una marea di prodotti simili indistinguibili fra loro. Ma è sull’effetto interiore che vorrei concentrarmi, quello che riguarda la relazione fra l’autore e la propria opera. Una volta che il testo è stato licenziato, che l’e-book è consegnato nelle mani del pubblico (malgrado poi, nella quasi totalità dei casi, si rivelerà essere composto da qualche decina di persone, conoscenti diretti dello scrittore), la sensazione sarà quella di aver concluso il lavoro e di essere pronti per mettersi all’opera sul romanzo successivo. Il libro è pubblicato, discorso chiuso.
Quello che avveniva prima invece, nel tentativo di ottenere la pubblicazione cartacea tramite un editore, era fatto sì di lunghi mesi di attesa, di frustrazione, di invii a vuoto, ma anche, in diversi casi, di allacciamento di rapporti, di letture critiche, di rifiuti e stroncature, ma anche di osservazioni sul testo, di suggerimenti, di evidenziazione dei punti deboli, di giudizi, forse severi ma professionali. Spesso l’esordiente, sulla base di queste reazioni, era portato a rivedere il suo lavoro, a riscriverlo, a operare dei cambiamenti, anche radicali se necessario, a lavorare a una nuova stesura, oppure a rinunciarvi del tutto, scegliendo di iniziare un nuovo progetto sulla base dell’esperienza fornitagli dagli errori precedenti. 
In sintesi, a me pare che una grave conseguenza dell’immediata uscita in e-book per un principiante sia quella di sottrarsi al rapporto dialogico che la strada tradizionale comporta. Trasformarsi in editori di se stessi significa saltare una serie di passaggi, alcuni anche molto frustranti, questo è fuori dubbio. Ma è davvero salutare evitarli?
Concedetemi delle metafore arbitrarie: lo sportivo che rinuncia agli allenamenti per non dover sopportare i rimproveri del coach, il musicista che salta la gavetta per non subire l’umiliazione di suonare in un bar dove nessuno dei presenti gli presta attenzione, saranno poi in grado di affrontare l’arena con le solide basi che richiede?
Mi spingo ancora oltre: prima, la fame di giudizi che aveva un autore in erba sul proprio manoscritto era tale da spingerlo a sottoporlo alla lettura di amici, insegnanti, fidanzate, colleghi. Anche questa era una minima forma di palestra. Oggi quegli stessi interlocutori sono i suoi lettori potenziali, si rivolge a loro dopo aver pubblicato il testo in forma elettronica, li invita ad acquistarlo. A loro volta questi non gli faranno osservazioni sul testo a cui sta lavorando (e che potrebbe essere spinto a modificare, perfezionare, stravolgere), gli faranno critiche su un’opera a tutti gli effetti conclusa. Il cambio di prospettiva è notevole, direi radicale. 


Prevengo in parte la valanga di critiche che mi verrà rivolta, prima fra tutte farmi notare come nella maggior parte dei casi il dialogo fra autore ed editore a cui faccio riferimento non esista, la protesta di chi si dichiara disposto alla messa in discussione del proprio lavoro ma si trova ad affrontare invece la completa indifferenza. Posto che, in un momento storico nel quale proliferano riviste on line, blog letterari, medie, piccole, microscopiche case editrici, forum di discussione e così via, la mancanza assoluta di responso sui testi mi appare sempre più difficile da credere (in altre parole, siamo sicuri che questi autori abbiano idea di dove andare a cercare un confronto?), quello che voglio mettere in discussione è il processo logico che ne scaturisce: nessuno mi risponde, quindi mi pubblico da solo. A me sembra che in questo passaggio di democratizzazione assoluta (lo scavalcamento del rapporto con un editore consolidato, tutti che diventano editori di se stessi) sia la qualità del testo a farne le spese: non esistono più standard minimi, esiste solo il desiderio di essere sul mercato.


2 commenti:

  1. La qualità del testo è senza dubbio quella che andrà a farsi benedire nel momento in cui la figura mediana dell'editore sarà obsoleta ma, adesso, abbiamo già esempi di editori ossessionati dall'essere sul mercato, che prendono come piovre qualsiasi fenomeno dell'autopubblicazione, lo stampano senza un pelo di editing e ci schiaffano sopra una fascetta. Quindi, a un lettore che non ha occhio per la qualità del testo che gli frega del lavoro dell'editore, quando il suo lavoro già allo stato attuale si fa fatica a percepire? Per carità, sono casi isolati, forse, però fanno venire la voglia di infischiarsene.

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  2. Matteo, grazie per il post. Mi trovo d'accordo, e estenderei la questione anche ai blog. Ho covato per qualche tempo l'idea di aprilre il "mio" blog, e alla fine vi ho rinunciato. Secondo me la domanda fondamentale che nessuno vuole porsi e': cosa porto di nuovo nella conversazione? E' davvero necessario condividere quello che mi passa per la testa con il vasto mondo? Se la risposta e' anche solo un vago "forse no", allora uno, in coscienza, non dovrebbe pubblicare niente. Come lettore, mi sento quasi offeso dalla quantita' di scemenze pubblicate sotto forma di blog, di musica, di riviste.

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