In una celebre canzone degli anni '80 l'artista multimediale Laurie Anderson cantava: "Language is a virus from outer space" (il linguaggio è un virus che arriva dallo spazio). La frase non è sua: è una citazione dal romanziere William S. Burroughs, uno dei padri della beat generation. Suona come un proclama visionario e fantascientifico, ma non è del tutto folle: ci sono ancora diversi punti oscuri nelle teorie del linguaggio e forse l’ipotesi del virus alieno potrebbe avere una sua remotissima plausibilità.
Dal mio punto d’osservazione posso affermare che la stessa teoria si può applicare alla lettura: leggere è un virus, che si propaga per contagio.
Se provate a fare due chiacchiere con gli insegnanti, soprattutto delle scuole primarie, vi racconteranno che la pratica della lettura è drammaticamente assente in molti alunni. I pochi che sono abituati provengono da famiglie con genitori di grado culturale elevato, che hanno educato i propri figli alla lettura. Del resto è difficile immaginare che un bambino venga spontaneamente attratto dai libri se non ha mai visto i propri genitori prenderne in mano uno.
Io so perfettamente di aver cominciato a leggere per pure ragioni imitative: vedevo i miei genitori farlo e ne ero invidioso. Non provengo da una famiglia agiata. Sia mio padre che mia madre hanno un'estrazione molto proletaria. Nessuno dei due ha proseguito gli studi dopo le scuole medie, che ai loro tempi venivano denominate "scuole di avviamento professionale", già alludendo nell'intestazione al loro ruolo di passaggio tra l’istruzione dell’obbligo e l’inserimento nel mondo del lavoro. Non poter proseguire gli studi ha rappresentato una frustrazione enorme, per mio padre in particolare. Si trattava di un'ingiustizia sociale che lui percepiva come ancora più intollerabile considerando che al paese l'unico ad aver potuto usufruire di un'educazione superiore della sua generazione era il figlio di un medico locale, il solo che ne avesse i mezzi finanziari. “Ed era il più stupido di tutti noi", non può fare a meno di ripetere ancora oggi quando tocca l’argomento.
Malgrado la scarsa istruzione (o forse proprio per questa bruciante assenza di) i miei genitori hanno da sempre mostrato una grande passione per la lettura, che hanno portato avanti secondo percorsi individuali: mia madre dedicandosi alla narrativa, mio padre alla saggistica storica.
Ricordo con assoluta precisione quando da bambino sedevo accanto a loro sul divano sfogliando il mio giornaletto a fumetti mentre loro erano immersi nella lettura di qualche volume. Capivo che stavamo compiendo lo stesso gesto, ma che la differenza stava nell’oggetto: io ancora non ero pronto per passare a quei tomi fitti di pagine e senza figura alcuna. Anelavo il momento in cui sarei passato al loro livello.
A quel punto il virus della lettura mi aveva già contagiato. Mi era bastato avere dei lettori per casa.
Ho avuto conferma che la lettura fosse un virus diversi anni dopo, quando sono stato assunto nel mio primo posto di lavoro, come assistente copywriter in una grossa agenzia pubblicitaria milanese.
Ogni giorno arrivavo in ufficio con un libro sottobraccio. E i volumi variavano continuamente, perché sono sempre stato un lettore vorace e veloce. La sola presenza di un testo in mano era sufficiente a creare una serie di reazioni concrete. Quasi immancabilmente in ascensore i colleghi, notando il volume in mano, mi chiedevano che libro fosse, di cosa parlasse, se ne consigliassi la lettura anche a loro. Mi trovavo già in un ambiente creativo e stimolante, i miei colleghi erano persone attente alla cultura, alla musica, al cinema (non poteva essere altrimenti, lavorando nell’ambito della comunicazione), anche loro erano lettori, ma forse non altrettanto entusiasti: vedere la velocità con cui divoravo un romanzo dopo l’altro ha stimolato il loro appetito.
La mia collega di scrivania me l'ha proprio dichiarato a chiare lettere: - Vedere tutti i libri che leggi mi ha fatto invidia -. Era una lettrice in latenza: le ho fatto tornare la passione per la lettura solo esibendo dei volumi.
A volte si veniva a creare una sorta di spontaneo club del libro: più persone si trovavano a leggere lo stesso romanzo in contemporanea quindi ci capitava di commentarlo alla macchinetta del caffè o in pausa pranzo. La possibilità di condividere pareri, di creare discussioni rendeva la lettura ancora più divertente.
L’aspetto interessante della faccenda è che non ho mai avuto intenzione di fare proselitismo: non volevo convertire nessuno, non ero mai io a proporre. Ero portatore del virus della lettura: si propagava per la mia presenza.
Nel corso del tempo ho imparato a riconoscere questa costante: la gente mi sa (e mi vede) legato al mondo dei libri, quindi mi prende a riferimento. Mi chiede consigli per le proprie letture, per i libri da regalare ai compleanni, per i titoli da portarsi in vacanza. Può succedermi nei posti di lavoro, con i nuovi gruppi di amici o (più di recente) sui social. Il mio entusiasmo per la lettura travalica e si propaga tutto intorno, molto spesso senza che io ne sia consapevole.
Sono convinto che ciascuno di noi sia un formidabile strumento di diffusione. È una vita che ne ho conferma.
A proposito di lettura, mi sa che stamattina in bagno ho visto la casa della Panikanova sfogliando D di Repubblica...
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