lunedì 12 ottobre 2015

AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE - FRAMMENTI (3)

Per me leggere a volte coincide con lavorare. Sono (e sono stato) consulente di diverse case editrici, quasi sempre in qualità di talent-scout: segnalo i romanzi inediti di autori esordienti che colpiscono la mia attenzione. In genere si tratta di giovani scrittori coi quali entro in contatto per il lavoro che porto avanti autonomamente per la mia rivista ‘tina.
La modalità con la quale leggo gli inediti è molto diversa da quella che applico per le letture personali. Con un esordiente divento un professionista: verifico che l’attacco del romanzo sia convincente, che non ci siano errori di ortografia o grammatica, che i dialoghi siano realistici, che le descrizioni siano funzionali al testo, che la prosa sia fluida, e così via. Con un romanzo pubblicato invece mi abbandono alla lettura perché sono consapevole che qualcun altro abbia già fatto questo lavoro al posto mio. Ci sono già state discussioni, revisioni, correzioni di bozze. Il libro è pronto per essere consumato. C’è una notevole differenza. 
Spesso la gente non lo capisce. A volte mi consegnano un dattiloscritto dicendo cose tipo: “Tanto è breve, lo leggi in tre ore”, equiparando di fatto il ritmo di lettura di un libro qualsiasi al loro inedito, mentre per me non è, e non potrà mai essere, lo stesso. Con un’ingenuità sconfortante mettono sullo stesso piano una lettura di piacere con una di valutazione. In verità penso sia più sensato paragonare un inedito a un testo d’esame: mentre lo leggo devo segnarmi degli appunti, segnalare gli eventuali errori, formarmi un giudizio, motivarlo, più o meno come quando all’università si stava settimane su un testo, rileggendolo, sottolineandolo, per poi essere pronti al momento dell’interrogazione. 
Va anche detto che spesso non arrivo neppure a questo stadio impegnativo del lavoro. Ormai ho sviluppato una sorta di sensibilità istintiva: mi bastano poche righe per sapere se il testo mi convince o meno. Talvolta la repulsione è immediata: refusi nell’incipit, assenza totale di stile, banalità di contenuti, un tono forzatamente letterario... sono tutti elementi che accendono un immediato campanello d’allarme. Capisco che non è di qualità sufficiente e passo oltre. Il che avviene almeno nella metà dei casi del materiale che ricevo. (Il livello standard è bassissimo, chi non fa questo lavoro non ci crede mai, ma è tristemente vero).
Il caso peggiore, che purtroppo non è raro, è quando mi trovo a che fare con testi scritti in maniera corretta, magari con un buon attacco, una lingua scorrevole, un’idea di storia, ma che nel corso della lettura si rivelano di scarso interesse. Compitini ben svolti che non dicono niente. In quel caso è molto più difficile sia rigettare il testo, che motivarne il rifiuto. Capisci l’impegno e la serietà che stanno dietro il lavoro, ma purtroppo non sono sufficienti. Dover dire a qualcuno che non ha talento non è semplice, ma ogni tanto va fatto. Quando qualcuno mi chiede “Dimmi sinceramente cosa ne pensi” non posso fare a meno di prestare fede all’avverbio contenuto nella richiesta. Mi sembra la cosa più onesta da fare. 

Resta l’eccezione miracolosa del dattiloscritto che supera tutte queste fasi e riesce a conquistarmi. In quel caso il segnale più evidente della sua forza sta proprio nella modalità di lettura che applico: quando mi rendo conto che ho voglia di proseguire quel testo anche la sera prima di dormire, o di portarmelo dietro in metro la mattina, o di riprenderlo durante una pausa, in sintesi quando capisco che la barriera netta fra la lettura di piacere e quella professionale ha assunto contorni più fragili e che quello che ho fra le mani (che necessita  interventi di editing, revisioni, limature) è già comunque un libro vero.


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