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venerdì 8 novembre 2013

DÉPÊCHE FICTION

Vabbé, se lo idolatro ci sarà un motivo.
Da alcuni giorni il mio scrittore preferito (Douglas Coupland, che ve lo dico a fare?) ha dato vita a un nuovo esperimento letterario, il tentativo di trovare una nuova formula di romanzo. La forma in sé non è nuova, anzi: si tratta di un classico ottocentesco (la pubblicazione a puntate su un giornale). La novità consiste nel desiderio di integrare il più possibile la contemporaneità dei fatti dentro la narrazione stessa (un libro influenzato in tempo reale da ciò che accade nel mondo) e dal giornale scelto per l’operazione, “Metro”, il free-press distribuito in metropolitana e nelle stazioni, un quotidiano che milioni di persone nel mondo (Italia inclusa) afferrano e leggono ogni giorno sui mezzi per andare al lavoro. 
Ha anche trovato una definizione per questo nuovo tipo di narrativa: “dépêche fiction”. 
Ecco come la spiega lui stesso: 

Non sono più sicuro che la fiction riesca a tenere il passo della vita, e di come la viviamo. Sono uno sperimentatore nato, e voglio tentare qualcosa di nuovo per cercare di sopperire a questa mancanza. L'ho già detto, e lo ripeto: come specie non siamo mai stati così intelligenti eppure non ci siamo mai sentiti così stupidi. Viviamo in un mondo di dispositivi elettronici e di nuvole informatiche e di bolle economiche. Il romanzo tradizionale sarà sempre fondamentale per la civiltà umana, ma ho l'impressione che sia necessaria una nuova forma di narrazione. La chiamo dépêche fiction: una fiction che cambia rapidamente. (Sì, un po' come i Dépêche Mode, una band che mi piace moltissimo). La dépêche fiction è una botta di caffeina. La dépêche fiction è un video pazzesco girato in Russia con una webcam fissata sul cruscotto della macchina. La dépêche fiction è scritta in modo da accumularsi nel cervello con il passare del tempo, per poi schiudersi, come uova aliene, e far dire al tuo cervello: "Hey! Sento un formicolìo, sento qualcosa di nuovo! E in ogni caso ho colto di sorpresa la tua vita!"
Il romanzo si intitola "Temp" (ossia "Temporaneo"). Trovate qui sul sito di Metro la prima puntata tradotta. Le successive vengono pubblicate a scadenza quotidiana. 


mercoledì 3 luglio 2013

IL LADRO RITROVATO


Domenica su L'Unità è uscito questo mio articolo. Lo ripropongo qui. 


Eccolo dunque il figlio negletto, l’ultimo della lista, il rinnegato. Ora che è uscito in italiano non posso continuare a fare finta, devo affrontarlo. Sì perché questo “Il ladro di gomme” (ISBN, 17,50 euro) rappresenta per il suo autore un punto oscuro, almeno per quanto concerne il suo percorso italiano. Va detto che la vicenda editoriale di Coupland nel nostro paese è stata accidentata come poche. Un po’ come la bella del liceo, che è stata a letto con tutti ma nessuno ha voluto sposare, l’autore canadese è stato pubblicato da una miriade di case grande e piccole: Leonardo, Marco Tropea, Mondadori, Feltrinelli, Frassinelli, fino ad avere trovato (finalmente) una collocazione stabile da alcuni anni presso ISBN. E forse non è un caso che uno scrittore così anomalo, che parla di sensitive e regine di bellezza, di carneficine nei licei e della vita fra gli impiegati della Microsoft, di apocalissi nei bar degli aeroporti e di ragazze cadute in coma giusto lo spazio di un decennio, si sia sistemato con la casa editrice italiana più attenta ai fenomeni culturali alternativi, quella che pubblica saggi di Thurston Moore degli Sonic Youth sul fascino delle audiocassette o una confessione di Martin Amis sulla propria dipendenza da videogiochi. Tornando però al tortuoso percorso italiano del nostro autore, malgrado le etichette con cui i suoi romanzi venivano editati cambiavano di continuo, la sua intera produzione è sempre arrivata più o meno puntuale sugli scaffali delle librerie. Almeno fino a questo “The gum thief”, uscito in America nel 2007, i cui diritti, all’epoca, non erano stati comprati da nessuno. 
Perché? 
Difficile dirlo in un contesto così confuso, ma certo alcune tiepide recensioni straniere e i commenti in rete di scarso entusiasmo non offrivano lo stimolo ideale perché un nuovo editore se ne innamorasse. L’idea che nessuno si azzardasse a pubblicarlo però faceva paura. Gli stessi aficionados di Coupland (il sottoscritto, in primis) provavano un sentimento di reticenza nei suoi confronti, mossi dallo spettro della delusione. In sintesi: ho comprato l’edizione americana ma non ho mai avuto il coraggio di leggerla.
Ora però che la traduzione (firmata da Tiziana Lo Porto) è disponibile, scopro che quei timori erano del tutto infondati.

Cominciamo dall’impianto narrativo: “Il ladro di gomme” è un piccolo campionario di scritture possibili. Contiene lettere, appunti, pagine di diario, capitoli di romanzo (nel senso di un altro romanzo), abbozzi di racconti, note. L’escamotage è il seguente: i protagonisti, Roger e Bethany, parlano fra loro scambiandosi messaggi, dapprima scrivendo sullo stesso diario, poi Roger mostra a Brittany gli estratti di un libro che sta tentando di scrivere, poi la madre di Brittany si intromette inviando una lettera... poco a poco il lettore entra in questo gioco di scambi e parte del piacere sta anche nello scoprire con quale mezzo i personaggi comunicheranno nel capitolo successivo. Strutturalmente un azzardo, anche per un autore abituato a sperimentare (resta magistrale in questo senso il pastiche fra il Decamerone contemporaneo e un dizionario del futuro che era il suo esordio “Generazione X”, tanto riuscito da marchiare a fuoco un’intera generazione sino a quel momento priva d’identità). Un coro polifonico di cui Coupland riesce benissimo a dosare le parti e, malgrado la varietà di materiali messi in gioco, il meccanismo scatta con precisione tale da non trarre mai in difficoltà. 
In questo senso, “Lo stagno del guanto”, il romanzo dentro il romanzo, di cui il lettore segue la cui progressione parallelamente alle vicende del libro, rappresenta un trucco pienamente riuscito: al termine si ha l’impressione di aver letto in contemporanea due romanzi (cosa che, in fondo, è davvero avvenuta). 
Se la forma è quella di una combinazione a orologeria, il contenuto è una rappresentazione del tipico mondo-Coupland, sin dal luogo dove si svolge, un anonimo (e pressoché) inutile grande magazzino di articoli da cartoleria nel quale si intrecciano le vite e i dialoghi pungenti di vittime sacrificali della società contemporanea: la ragazzina che veste dark per camuffare il suo senso di inadeguatezza, il quarantenne che si sente già ampiamente fallito e non ha alcuna prospettiva di fronte a sé se non quella di tenersi stretto il posto da commesso, la madre incapace di rappresentare un modello positivo per la figlia, i colleghi meschini e invidiosi... Qui, più che in altri suoi libri, però l’autore sembra lasciarsi andare a una dose maggiore di pessimismo, o meglio, di sfrontatezza nei confronti della sofferenza: non si limita a fotografarla con qualche immagine di desolazione pop illuminata al neon e accompagnata da battutine acide. Vi si immerge proprio, la chiama col suo nome, sceglie di raccontarla. Del resto Roger non ha solo un matrimonio fallito alle spalle, ma anche un figlio  piccolo morto in un incidente stradale, il suo essere costantemente sul punto del crollo emotivo è comprensibile, e profondamente umano. 
Ecco allora che l’intero romanzo si rivela essere un duplice omaggio alla scrittura: attraverso le sue forme e attraverso il suo potenziale. Se si intravede nel finale una timida possibilità di riscatto è perché la lunga corrispondenza fra i protagonisti li ha aiutati a comprendersi e sostenersi a vicenda, così come il manoscritto che Roger tira fuori dal cassetto e riesce a proseguire è forse il primo segnale concreto di una sua rinascita. Scrivere come atto salvifico. Scrivere a mano, addirittura. Lettere, addirittura. Quasi una svolta per un autore quale Coupland, paladino dell’innovazione tecnologica come nessun altro. 

Ma se è vero che la grandezza sta nei particolari, allora lasciamo perdere le considerazioni generiche e concentriamoci sui dettagli. Prendiamo per esempio il terzo capitolo, con la voce narrante di Roger, ed estrapoliamolo come se fosse un racconto (si può fare perfettamente). Ci colpisce subito, a partire dal potente incipit: “Dolore! Il dolore è in ogni dove - un livido che non si fa mai giallo e non sbiadisce, un’erbaccia che uccide il raccolto. Il dolore è una persona anziana, che è morta sola in una stanzetta di merda. Il dolore è vivo, è nelle strade e nei centri commerciali. Il dolore è nelle stazioni spaziali e nei parchi a tema. Nel Cyberspazio, nelle Montagne Rocciose, nella Fossa delle Marianne. C’è così tanto dolore”. E prosegue col resoconto di come il protagonista abbia incontrato quella che diventerà la sua compagna e la madre dei suoi figli, nello studio di una chiromante che invece di predirgli il futuro ha sezionato brutalmente il suo passato, rimproverandolo per il suo pessimo carattere, causa principe dei suoi errori. La donna che si innamorerà di lui lo conosce così, un concentrato di debolezze, e il capitolo si chiude con due righe che sintetizzano tanto il presente di Roger, quanto le reali capacità di preveggenza della sensitiva. 
E’ un racconto perfetto e da solo cancella per sempre - almeno per me - il marchio d’infamia con cui troppo a lungo, e ingiustamente, questo romanzo è stato bollato.


martedì 15 febbraio 2011

RIUNIONE DI REDAZIONE

Fine anni '80. Io lavoro come copywriter in un'agenzia pubblicitaria, anche se il mio interesse principale, già da allora, erano i libri. I miei amici ne erano bene a conoscenza.

Un giorno ricevo la chiamata di un amico che lavora come reporter presso un mensile di viaggi e attualità, ora estinto.

- Senti tu sai cos'è la "Generazione X"? -

- Sì, certo. E' una definizione presa dal titolo di un romanzo dello scrittore canadese Douglas Coupland -

- E cosa vuol dire? -

- Si riferisce alle persone che hanno oggi intorno ai 25 anni, che non hanno riferimenti sociali e culturali precisi, per questo li ha catalogati con una generica X -

- Verresti a spiegarlo in redazione? -

- In che senso, scusa? -

- Il giornale vorrebbe occuparsi del fenomeno, ma non abbiamo una conoscenza precisa della cosa, e ho pensato che magari tu potresti aiutarci. Ti presento al direttore, forse fa scrivere qualcosa anche a te... -

Illuso dalla prospettiva, accetto.

Il giorno seguente mi trovo in una sala di redazione con una mezza dozzina di giornalisti raccolti intorno a un tavolo ovale. Accanto a me, il direttore, che scopro essere una direttrice. Io, in piedi, spiego l'origine della definizione, riassumo i contenuti del romanzo, indico le caratteristiche non-caratteristiche della popolazione a cui l'etichetta si riferisce.

Al termine, la direttrice stessa, chiede: - E dove si trovano questi ragazzi? Che locali frequentano? -

- E' un po' questo il punto: non hanno riferimenti. I luoghi che frequentano sono non-luoghi: centri commerciali, sale giochi, fast food, sale d'attesa di aeroporti. E' il fatto di essere generici che li caratterizza. E' un paradosso -

Lei insiste: - Sì, ma puoi darci i nomi di questi centri commerciali? -

La guardo stupefatto. - Non sono luoghi specifici. Qualunque centro commerciale -

La direttrice comincia a squadrarmi con un leggero fastidio, come se io non sia in grado di cogliere il suo ragionamento: - Senti, noi dobbiamo scrivere degli articoli che i lettori possano capire, dare loro dei riferimenti precisi, dei nomi. Se tu non ne conosci, va bene. Ma ce ne saranno -

- Onestamente, se è questo il vostro intento, credo che la Generazione X come soggetto sia sbagliato. E poi il fenomeno è prettamente americano. Potreste fare un servizio, che ne so, sugli attori o sui cantanti di quell'età, come artisti che identificano quella generazione. Ma se il vostro intento è quello di indicare locali, ristoranti o discoteche, allora è un vicolo cieco -.

La direttrice non è affatto convinta. Scuote le spalle. - Sarà come dici tu - dice, ma è chiaro che non lo pensa affatto. - Avresti qualcosa d'altro da suggerirci? C'è qualche fenomeno interessante che sta invece venendo fuori in Italia secondo te? -

Ci penso un attimo. Così su due piedi non so cosa dire. - Beh, forse ci sarebbe una cosa... -

- Sì? -

- Ecco, mi sembra che stia per essere ampianente rivalutato il fenomeno del trash. Il recupero del cattivo gusto. Negli ultimi tre mesi sono usciti due saggi che si occupano del fenomeno, per piccole case editrici, però è significativo. Stanno facendo un musical sulla mafia con musiche di Nino D'Angelo, una parodia. Anche nei locali dove vado con gli amici mi accorgo che sempre più spesso vengono riscoperte canzoni imbarazzanti del passato ma proposte col gusto della riscoperta... -

La direttrice mi interrompe. - Ecco, mi sembra che sia una cosa che diverte te e i tuoi amici. Senza offesa, eh? Ma io parlavo di fenomeni sostanziali -

Il mio incontro è finito. E' chiaro che io e la direttrice ci detestiamo e che io non scriverò mai una riga per questa rivista. Il mio amico reporter mi riaccompagna alla porta in evidente imbarazzo.

Esattamente un anno più tardi (sottolineo, un anno), in edicola vedo la copertina del nuovo numero della rivista. Il titolo riporta: "Trash: un fenomeno italiano".