martedì 28 giugno 2011

APPUNTAMENTO DA NINA

Venerdì 1 luglio alle 21.15 sarò a Pietrasanta (Lu), presso la libreria Nina in via Garibaldi 45 a presentare "Apocalisse a domicilio" all'interno della deliziosa rassegna "L'aperitivo Cor". Nina è una libreria indipendente che è un piccolo tesoro. Tempo fa anche il sito di minimum fax l'aveva segnalata come "Libreria del mese". Insomma, vale la pena farci un giro. Se siete al mare in Versilia venite a fare un salto.

martedì 21 giugno 2011

COSE SERIE

Si sta concludendo una stagione televisiva e se ne sta aprendo un'altra per le serie tv. Vediamo di tirare le somme.

Allora, la sorpresa dell'anno è senza dubbio "Game of thrones". Dico sorpresa per me perché solo la HBO avrebbe potuto farmi appassionare a una serie tratta dal genere letterario che più detesto, ossia il fantasy. (Per capirci, a me "Il signore degli anelli" cinematografico ha fatto schifo). Invece la qualità della scrittura, gli intrecci e la caratura degli attori hanno di nuovo fatto il loro gioco. "A Lannister always pays his debts": non vedo perché io non dovrei fare altrettanto. La HBO resta la mia casa di produzione preferita e continuerò ad andare in giro sfoggiando orgoglioso la loro t-shirt.

Altra passione si è rivelato essere il thriller "The killing". Qui il discorso si fa complicato: benché pieno di difetti (narrativi soprattutto), l'atmosfera plumbea e il casting perfetto dei due detective protagonisti è risultato assai efficace per farmi rimanere da subito abboccato all'amo. Yo, Linden.

"Nurse Jackie" al terzo run ondeggia fra la commedia gustosamente macabra e la cazzata americana. Lo ha fatto anche per metà della prima stagione, del resto. E tuttavia Edie Falco è bravissima e il personaggio della dottoressa O'Hara è irresistibile.

Discorso simile per "The big C". Laura Linney è un'attrice che è difficile non amare, grazie a una carriera di scelte cinematografiche ottime, e lo spunto di partenza, la rilettura in chiave quasi positivista del cancro, è senza dubbio interessante. Non sempre però la serie riesce a tenere bene l'equilibrio tra sensibilità e superficialità. Bel tentativo, comunque.

Pollice verso totale invece per "United states of Tara": giunto alla terza stagione, la serie conferma che la sceneggiatrice Diablo Cody è un pacco completo. Non solo è riuscita ad affascinare il mondo con un filmetto mediocre come "Juno", ma qui manda in vacca l'intero castello di carte creato sulle abilità recitative (mostruose) di Toni Collette. Se la seconda serie era brutta, questa è oscena al punto che ho dovuto smettere dopo tre episodi.

Grande apprezzamento invece per la serie poliziesca inglese pesissima "Luther". Posto che per me è impossibile guardare l'attore Idris Elba senza formulare pensieri di natura oscena, l'idea narrativa del rapporto di complicità nato fra un detective della polizia e un'assassina psicotica giustifica da sé l'interesse per una serie girata molto bene e dalla tensione costante.

Resta di altissimo livello infine "The good wife", il legal drama con Julianna Mergulis prodotto dai fratelli Ridley e Tony Scott. In particolare è da ammirare l'abilità degli sceneggiatori nell'infilare casi di cronaca giudiziaria attualissimi all'interno degli episodi. Basti citare la causa legale del giovane programmatore che ricordava assai da vicino il caso Zuckember/Facebook. E poi, è impossibile non apprezzare una serie con un personaggio eccezionale come Kalinda.

E tra un mese ricomincia "Breaking Bad". Quindi non ce ne sarà più per nessuno.

PS:

Domanda: Come mai non hai parlato dell'ultima serie di "Mad Men"?

Risposta: Perché sono ancora alla prima metà della seconda stagione. Non è colpa mia se mentre la guardo mi addormento, no?

venerdì 17 giugno 2011

INTERVISTE CHE NON MI HANNO FATTO, n. 4 (ESORDIENTI: LAVORI IN CORSO)

Ieri citavo il libro "Esordienti: lavori in corso" a cura del giornalista Nicola Perilli. Dal momento che il volume consiste esclusivamente di interviste rivolte a scrittori sul tema dell'esordio, direi che questo slot di domande fisse si presta perfettamente per la mia rubrica egodelirante sulle interviste che non mi sono state poste. Voilà.

Quando e come ha esordito?

Con un bluff. Nel 1993 erano usciti i primi volumi della serie "Millelire" di Stampa Alternativa. In quel periodo io stavo frequentando l'università e, in contemporanea, svolgevo il servizio civile in un istituto di assistenza per bambini psicotici. Ho pensato che l'esperienza che stavo vivendo potesse essere un soggetto ideale per un Millelire, allora ho scritto tre pagine e le ho spedite all'editore, Marcello Baraghini, fingendo che fossero estratte da un testo più lungo. Qualche giorno dopo Baraghini mi ha chiamato (molto presto, erano forse le otto del mattino, mi ricordo che stavo facendo colazione) e mi ha detto che avrebbero pubblicato il libro, di mandargli il resto. Io ero esaltatato ma anche terrorizzato, perché in effetti non c'era alcun resto: ho dovuto scrivere il libro nel giro di qualche settimana e spedirglielo. Credo di essere stato un rarissimo caso al mondo di esordiente che ha avuto proposta di pubblicazione prima ancora di aver scritto il testo.

Tuttavia considero questo solo il mio primo approccio al mondo editoriale, perché si trattava di un lungo racconto, non un romanzo. L'esordio vero e proprio è stato con "Generations of love" del 1999. In quel caso avevo mandato il dattiloscritto a tre editori: Feltrinelli, Einaudi Stile Libero e Baldini & Castoldi. Feltrinelli mi disse di no (con una lettera molto dettagliata che ne spiegava i motivi), da Stile Libero dissero che erano interessati, ma senza farmi una proposta concreta, in Baldini mi dissero di sì subito, e ovviamente firmai con loro.

Essere un esordiente oggi: cosa cambia rispetto al passato?

C'è Internet, quindi è cambiato tutto. Esistono infinite possibilità di pubblicare, attraverso siti, riviste, blog. E' anche più facile approcciare le case editrici (tutte hanno una loro pagina in rete, trovare i contatti è diventato elementare). Sono aumentate le possibilità, anche per una mutazione del gusto del pubblico (più incline a leggere autori nuovi) e di conseguenza, di interessa da parte degli editori.

Scelga un libro (non suo) col quale le sarebbe piaciuto esordire. Perché?

"Generazione X" di Douglas Coupland, perché ha fotografato un'era e perché era pieno di geniali trovate extra-testuali.

Quando ha smesso di sentirsi esordiente ed ha cominciato a sentirsi un professionista?

E' stato un processo molto lungo: prima di pubblicare, pensavo che mi sarei sentito scrittore solo dopo aver visto la mia firma su un volume pubblicato. Dopo l'uscita del Millelire continuavo a sentirmi un aspirante autore perché mi sembrava comunque una collana molto underground. Dopo la pubblicazione del primo romanzo per Baldini, ho cominciato a pensare che mi sarei sentito professionista solo dopo averne pubblicati due o tre o se avessi ottenuto un grosso successo di classifica... Mi sembrava che non ci fossero mai le condizioni necessarie. Solo di recente sono riuscito ad ammettere con me stesso di essere uno scrittore professionista, perché ho riconosciuto che quello che scrivo mi dà da vivere: che poi siano testi narrativi, articoli di giornale o copioni televisivi, poco importa.

Secondo la sua esperienza oggi per un giovane autore è meglio provare direttamente con i grandi editori o affidarsi all'editoria indipendente? O quale altra strada?

Credo che esordire con un piccolo editore sia meglio da molti punti di vista: perché (in genere) l'autore viene seguito con maggiore attenzione; perché approccia il mondo editoriale con maggiore cautela, senza essere buttato al centro dell'arena; perché ai fini dell'interesse della critica non c'è quasi differenza fra un grande e un piccolo editore (se di qualità, s'intende); perché a tutti è concesso eventualmente di sbagliare il primo libro uscito per un editore indipendente, mentre un esordio sbagliato con un grande editore è un marchio che difficilmente si cancella.

Ma consiglio anche di non pensare sempre e solo in termini di pubblicazione. Oggi esistono tanti strumenti, come i blog o le riviste on line, per cominciare a far leggere le proprie cose. Avere un parere oggettivo su quello che si scrive è il primo passo concreto per fare i conti con la propria scrittura e imparare a migliorare. Meglio arrivare al debutto un anno dopo, con maggiore consapevolezza, che precorrere i tempi e ottenere risultati approssimativi.

Quale consiglio si sente di dare a uno scrittore esordiente?

Quello di leggere i suoi colleghi esordienti. Molte volte mi è capitato nei corsi di scrittura di constatare che tanti aspiranti scrittori ignorano il lavoro dei propri coetanei. Non hanno alcun metro di paragone, non cercano un confronto che invece sarebbe salutare e, in alcuni casi, confortante. Molti di loro non sono neanche consapevoli dell'esistenza delle riviste di letteratura o dei piccoli editori specializzati in esordienti, quando invece dovrebbero essere il loro primo riferimento. E' un po' come trovarsi ad allenare una squadra di calcio e scoprire che non hanno idea dell'esistenza di campionati regionali, ma sono tutti convinti di dover esordire in serie A.

Infine, quanto conta la lettura nel percorso di crescita di un autore?

E' l'unica cosa che conta. Si diventa scrittori perché si ama leggere. Se no, che senso ha?

giovedì 16 giugno 2011

Esordire negli anni zero

In questi giorni ho letto due libri che poco hanno a che fare tra loro e che però mi hanno offerto spunti simili di riflessione.

Il primo è "Suonare il paese prima che cada", a cura di Andrea Scarabelli (Agenzia X editore). Come suggerisce il sottotitolo, "Musica dagli anni zero", si tratta di un saggio sulla musica italiana dell'ultimo decennio, e non nel senso di Marco Carta e Emma Marrone, quanto sul ruolo culturalmente più rilevante svolto dai gruppi e dai cantautori della scena indipendente italiana.

Tramite testimonianze dirette, scambi di email e lunghe conversazioni, i protagonisti della scena indie raccontano il loro percorso individuale e tracciano un quadro del decennio che hanno (e abbiamo) appena attraversato. E' proprio questa finestra temporale a rendere significativo il discorso. Gli anni zero infatti hanno rappresentato una svolta epocale per il mercato discografico mondiale. In una decade, il panorama musicale ha subito una rivoluzione: le major si sono sgretolate, i negozi di dischi hanno chiuso i battenti lasciando il ruolo di rivenditori a pochi grandi magazzini, internet è diventato il canale principale della distribuzione di musica (legale e, soprattutto, illegale), l'evoluzione digitale ha permesso che a chiunque di avere gli strumenti per registrare, produrre e far circolare le proprie canzoni, i social network hanno sostituito il ruolo dei promoter e degli uffici stampa. In una parola, è cambiato tutto. E se da consumatori ognuno di noi ha dovuto fare i conti con questi mutamenti radicali, è particolarmente interessante rivivere questo processo attraverso gli occhi di chi ha prodotto musica all'interno di questo scenario tellurico.

Il percorso dei Baustelle, qui raccontato dalla voce del leader Francesco Bianconi, rappresenta uno degli ultimi casi di carriera discografica dalle modalità classiche, e che infatti ha avuto il suo avvio negli anni '90: primi dischi prodotti da piccole etichette, un paio di video azzeccati tramessi da MTV, l'interesse di una grande casa discografica come la Warner, il contratto, il Festivalbar, l'arrivo al grande pubblico. Un tragitto che, secondo lo stesso Bianconi, oggi sarebbe "impossibile" anche per quelle nuove band molto valide che lui riconosce essere in circolazione.

Ecco allora, quasi da contraltare, l'avventura dei Tre allegri ragazzi morti di Pordenone, secondo le parole di Enrico Molteni: un gruppo che ha flirtato con le major per poi tornare a scegliere la strada dell'autoproduzione, creando una propria etichetta e chiamandola col titolo di una loro canzone, "La tempesta". La label, nata al semplice scopo di produrre i dischi del trio, a poco, a poco, ha cominciato a pubblicare i lavori di altri amici musicisti, ospitando gruppi significativi come Il teatro degli orrori o scoprendo nuovi artisti di grande rilevanza come Le luci della centrale elettrica, sino a diventare la più importante realtà discografica indipendente del paese. Il tutto fatto a budget ridottissimi, con vendite di dischi ai concerti o nei festival, con il coinvolgimento del pubblico tramite internet, con un approccio diretto e quasi artigianale.

E' cambiata la realtà, va cambiato dunque l'atteggiamento con cui ci si pone.

Per i musicisti questa rivoluzione ha significato doversi concedere anima e corpo all'impegno musicale, a costo di enormi sacrifici. Investire in se stessi, con una fede quasi cieca nel futuro, attraversando fasi di grandi incertezze. Sono significativi i racconti di Federico Dragogna dei Ministri, un gruppo che arrivava ad avere quasi duecento date in un anno, ma a condizioni tali da non ricavarci neanche trenta euro a testa a sera, o del cantautore Dente, che ha rinunciato a un impiego retribuito per dedicarsi a comporre canzoni, costringendosi a non uscire la sera per oltre un anno per evitare ogni spesa.

E questi non sono i soliti aneddoti folcroristici che segnano gli esordi di ogni leggenda rock che si rispetti. Qui, a mio avviso, sta la vera, fondamentale differenza, rispetto al recente passato musicale. Una volta l'artista faceva sacrifici nell'ottica di venire prima o poi scoperto da un celebre produttore e vedere il proprio lavoro riconosciuto, con grandi investimenti economici e promozionali. Oggi questa prospettiva può essere catalogata come del tutto utopica: il musicista è consapevole che l'impegno che gli si richiede sarà continuo e i risultati relativi. In un certo senso si può tornare a parlare di vocazione musicale. Una scelta di vita a fronte di un'insopprimibile esigenza di esprimersi e comunicare.

Che un primo, potente effetto della rivoluzione musicale degli anni zero sia un ritorno all'onestà? Questo libro me l'ha fatto pensare.

L'altro volume che ho letto quasi in contemporanea è "Esordienti: lavori in corso" (Giulio Perroni editore). Qui ci spostiamo in ambito letterario. Il giornalista Nicola Perilli ha intervistato trenta scrittori ponendo a tutti le stesse domande: Come ha esordito? Che consiglio si sentirebbe di dare a uno scrittore emergente? E' meglio provare direttamente con un grande editore o affidarsi alla piccola editoria indipendente?

Si torna dunque a parlare di esordi, di percorsi individuali, di sacrifici e tentativi di fare arrivare la propria voce al pubblico. L'editoria non ha subito il tracollo che è toccato all'industria del disco (l'arrivo dei tablet e la diffusione degli e-book comporteranno le stesse conseguenze? E' un po' presto per dirlo). L'avvento di internet però anche in ambito editoriale ha mutato notevolmente lo scenario: editori on line, blog e riviste, nuove case editrici indipendenti che si fanno conoscere tramite la Rete.

Posto che alcune inclusioni nel volume non sono signficative (mi sembra irrisorio chiedere a chi già appartiene a certi circoli culturali, come Cristina Comencini, come abbia esordito), la lettura di queste interviste dimostra come per gli scrittori la via del debutto segni strade ogni volta differenti, quasi imprevedibili. La varietà delle esperienze è assoluta: c'è chi arriva a esordire con un colosso come Mondadori e ottenere un successo planetario (il caso Paolo Giordano), chi procede per piccoli passi (un racconto uscito su una rivista letteraria che porta alla pubblicazione di un romanzo presso un piccolo editore che desta la curiosità di un editore più grande...), chi gode dell'interessamento benevolo di un grande scrittore che gli funge da mentore.

Anche qui gli sforzi iniziali sono notevoli. Mesi, anni di impegno solitario, a fronte di nessuna certezza, e un percorso nel quale il talento non sempre è l'unico strumento necessario per emergere. Chi sta cercando di muovere i primi passi nell'ambito editoriale trarrà un certo giovamento nel leggere le traversie di chi l'ha preceduto in questo accidentato sentiero.

Il più bel consiglio allo scrittore emergente, fra i trenta presenti, mi sembra quello di Sandra Petrignani. Il più punk di tutti: "Di essere se stesso. Ascoltare la propria voce e esserle fedele. Fregarsene di tutto il resto, ma fregarsene davvero, profondamente".

Sembra quasi di tornare a sentire la voce dei cantanti dell'altro libro: esprimersi perché ce n'è il bisogno. Credo, in tutti casi, sia il migliore punto di partenza comunque.

martedì 14 giugno 2011

GIOVEDI SERA

Giovedì 16 giugno, un aperitivo per festeggiare il volumetto "Sotto Anestesia". Sulla terrazza dell'Hotel The Gray, via San Raffaele, 6 (in Duomo) a Milano. Dalle 18,30 in poi, ingresso gratuito, non è una presentazione, è un'occasione per fare festa e per un live inedito degli Egokid che suoneranno cover della new-wave italiana anni '80. Vi aspetto.

La Gioconda di Paola Barale

Se c'è una cosa che mi fa davvero molto ridere sono gli errori sui giornali. Trovo che la svista umana unita all'autorevolezza della stampa provochi effetti davvero esilaranti. Mi vengono in mente alcuni esempi casuali: su un quotidiano nazionale tempo fa ho visto un ritratto di Irene Grandi accompagnato dalla didascalia "Nella foto: il cantautore Enzo Jannacci"; sulla copertina di una rivista di gossip l'allusivo annuncio "Francesco Totti e Valentino Rossi presto all'altare" (ovviamente il titolo sottintendeva che i due campioni avrebbero sposato le rispettive compagne, ma messo in questa formula assomigliava più allo squillante annuncio di un matrimonio gay fra sportivi superstar); su un altro quotidiano, l'imbarazzante gaffe geografica nella biografia di un'attrice "di madre italiana e padre siciliano".

Quello che trovo ancora più comico però è il didascalismo di certi settimanali di costume. Mi riferisco a quei rotocalchi con in copertina immancabilmente qualche esponente di case reali o i papi, il cui target di lettori mira molto ai pensionati e che di solito si trovano nelle sale d'attesa di medici e dentisti. Almeno, io è lì che li sfoglio. Queste pubblicazioni rispondono evidentemente a regole redazionali precise. Per esempio, la necessità di mettere tra virgolette termini stranieri entrati ormai nel linguaggio più comune, tipo la "top model", l' "hard disk", il "lifting", come se si trattasse di linguaggi esoterici. O l'abitudine di esplicitare ogni riferimento, anche il più banale.
In questo senso, il capolavoro assoluto è stato raggiunto in un servizio sulla casa della conduttrice Paola Barale. Il classico reportage in cui il divo di turno mostra la propria cucina e il salotto, sorridendo orgoglioso fra le sue cose. Nel caso specifico, un ritratto era completato dalla seguente frase: "Paola Barale posa sul letto della propria camera. Alle sue spalle, "la Gioconda", il quadro preferito di Paola (l'originale è conservato al museo del Louvre a Parigi)". Quando ho letto la parentesi sono scoppiato a ridere, a beneficio dei tutti gli astanti della sala d'attesa del mio dentista. Ma davvero ha senso specificare una notizia del genere?, mi sono chiesto. Possono esistere lettori che credano che l'originale del quadro più famoso del mondo sia esposto a casa di Paola Barale?!?

Il mondo è un posto veramente assurdo.

venerdì 10 giugno 2011

Il passaggio alla carta

Arriva sempre un punto nella mia fase di scrittura, in cui ho il bisogno di stampare. Dopo un periodo di attività solo cerebrale ho l'esigenza di un confronto fisico. Della carta. Devo controllare quante pagine ho prodotto, come appare il testo stampato. E' sempre un momento gratificante, mostrare a me stesso che sì, ho lavorato, ho realizzato qualcosa di concreto, che posso toccare.

A volte funge da espediente per ridarmi vigore: stampare decine di pagine per spingermi ad andare oltre. Come il corridore che prende una pausa lungo il tragitto e trova di nuovo le energie per tagliare il traguardo verificando quanta distanza ha già percorso. (Lo vedi? Hai già scritto tutto questo, sei a buon punto. Coraggio, non manca molto).

Ma è anche una sorta di prova d'abiti di scena: quelle parole sono destinate a diventare un libro stampato, questo mucchietto di fogli è una prima raffigurazione di cosa diventeranno in futuro. E' la sua fase larvale, precedente alla sboccio.

Mi chiedo se con la conversione completa al digitale, col passaggio alla lettura su e-reader e tablet, scomparirà questa esigenza. Se il passaggio sulla carta verrà saltato. E' possibile. Al momento però, almeno per quanto mi riguarda, resta un momento fondamentale e irrinunciabile.

mercoledì 8 giugno 2011

INTERVISTE CHE NON MI HANNO FATTO, n. 3 (D)

Dopo due puntate con ispirazione straniera, ho preso in prestito un format italiano. L'intervista mai fatta di oggi riprende infatti la rubrica di D La Repubblica delle donne intitolata "D lo chiede a...". Così se mai dovesse succedere che decidessero in futuro di intervistarmi, io ce l'ho già pronta.

D LO CHIEDE A... Matteo B. Bianchi

A 13 anni cosa voleva fare?

Il regista o lo scrittore.

Ha il potere assoluto per un giorno: la prima cosa che fa?

Elimino fisicamente Silvio Berlusconi dalla terra.

Se la sua vita fosse un film chi sarebbe il regista?

In questo momento vorrei che fosse Xavier Dolan, un ragazzino canadese che fa dei film pazzeschi.

All'inferno la obbligano a ascoltare sempre una canzone: quale?

Nel senso che deve essere una tortura? Allora una di Giorgia. Una qualsiasi.

Cos'ha imparato dall'amore?

Che esiste.

Nel migliore dei mondi possibili dovrebbe essere abolita la parola?

Intolleranza.

Oggi cos'è un tabù?

Una forma di pudore.

Una cosa che non ha mai capito della gente?

Il bisogno di emulazione. Il fare una cosa perché la fanno tutti gli altri. Assoggettarsi passivamente alla massa è qualcosa che davvero non riesco a comprendere.

Come si immagina il paradiso?

Accogliente.

La sua casa brucia: cosa salva?

Il mio laptop, o l'hard-disk esterno con le copie dei miei lavori. (Anche se la risposta migliore a questa domanda l'ha data anni fa in un libro Jean Cocteau: "Se la mia casa andasse a fuoco cosa porterei via? Certamente il fuoco").

Le rimangono 12 ore di vita: cosa fa?

Le trascorro col mio compagno.

La volta che ha riso di più?

La prima volta che ho visto "Donne sull'orlo di una crisi di nervi" di Almodovar.

La vera differenza tra un bambino e un adulto?

L'innocenza.

Il suo più grande fallimento?

Non essere diventato una pop-star.

Una cosa che voleva e non ha avuto?

L'avvenenza fisica.

Come spiegherebbe a un bambino cos'è la felicità?

Aspetterei di vederlo felice e poi gli direi che è quel momento esatto.

lunedì 6 giugno 2011

STORIA DI UNA DIPENDENZA

Provengo da una famiglia nella quale il caffè si beve con la frequenza dell'acqua. Se esistesse un sistema per quantificare il numero di frasi ripetute più spesso da una persona nel corso della propria vita, nel caso di mia madre probabilmente risulterebbe essere: - Vuoi un caffè? -. I miei genitori abitano in un paese di provincia, in una casa a piano terra che si affaccia sull'ingresso di una corte. Capita di frequente che la gente che passa lì davanti li saluti dalla finestra o dal cancelletto aperto. E altrettanto spesso loro li invitano a entrare. Per un caffè, s'intende. Ricordo che da ragazzino, quando frequentavo il liceo a Pavia, ero il primo ad alzarsi in famiglia. Dovevo prendere un treno molto presto, credo alle sette. Mia madre si alzava con me, facevamo colazione insieme e prendeva il primo caffè della sua giornata. Poi era il turno di mio padre che andava al lavoro e di nuovo ne beveva una tazza con lui. Quando si alzava mia sorella per andare alle medie in paese era già il momento di una terza tazza. E non erano ancora le otto del mattino. Questo per dire quale predisposizione genetica abbia ereditato.

Bere caffè è stata, per anni, una delle abitudini più frequenti e naturali della mia vita. A casa e fuori. Durante l'università studiavo con una compagna di corsi che aveva solo una grossa moka da sei tazze: ce la bevevamo tutta noi due, almeno tre volte al giorno. Cioè l'equivalente di nove tazze a testa. A volte finivo io la quantità che lei lasciava nella moka.

All'estero soffro la mancanza del caffè italiano in maniera imbarazzante. Me ne lamento di continuo, pur consapevole del rischio di provincialità che questa ammissione comporta. Ricordo ancora la fitta di gioia assoluta che ho provato un pomeriggio per le strade di Tokyo quando mi sono imbattuto casualmente in un bar con il logo "Segafredo". Trovare un vero espresso all'altro capo del mondo, dopo giorni che non ne bevevo, mi era parso miracoloso. A Istanbul, dove si beve ovviamente solo quel terribile caffè turco, mi facevo almeno una volta al giorno un viaggio di cinque fermate di tram pur di raggiungere un localino dove avevo scoperto esserci una macchinetta Nespresso, che dell'espresso italiano almeno ricorda forma e sostanza.

Per me il caffè è la bevanda privilegiata e non ha orari. Sentire qualcuno che già a metà pomeriggio ammette di non poter bere caffè perché rischia di restare sveglio di notte mi appare assurdo quanto qualcuno che dichiari di indossare un giubbotto imbottito ad agosto per stare al caldo in novembre. Non riesco neppure a immaginare una relazione tra due eventi tanto distanti nel tempo: quante volte ho bevuto un caffè alle undici di sera per poi magari coricarmi a mezzanotte, e senza alcun problema.

Questa è stata la mia vita fino a poco tempo fa.

Da alcuni mesi succede invece uno spaventoso fenomeno: che il mio fisico comincia a risentirne. Mi sono reso conto, e con un certo sbalordimento, che se ne bevo più di tre tazze al giorno accuso una certa nausea. In alcuni casi, se ho ecceduto il giorno precedente, il fastidio è così accentuato che devo evitare di berne per l'intera giornata successiva. E' il mio stesso corpo che me lo richiede, ne sono consapevole. Ciò non toglie che mi appaia come una forzatura spaventosa e del tutto innaturale. Trovarmi in pausa al bar a metà mattina, mentre tutti ordinano un caffè, e io devo limitarmi a una minerale, o una spremuta, ha dell'irreale. Capisco che il mio stomaco mi manda segnali in questo senso, ma il mio cervello non riesce a farsene una ragione. Vedo gli altri accostare la tazzina fumante alla bocca e provo un'invidia quasi inesprimibile.

Mi chiedo se questa condizione sia transitoria o definitiva. Se io abbia ormai raggiunto un limite fisico di assorbimento caffeina oltre il quale non è più possibile eccedere. Non lo so, non ho conoscenza scientifiche a riguardo, non riesco a capirlo. Però ho compreso quale configurazione potrebbe assumere l'inferno per me: un luogo dove tutti bevono caffè, mentre a me è precluso.

P.S. Mi consola sapere di non essere il solo ad avere simili ossessioni. C'è chi ci dedica addirittura un blog.

venerdì 3 giugno 2011

READING EUROPRIDE

Domenica 5 giugno, al Teatro Piccolo Eliseo di Roma alle ore 21, in occasione dell'EuroPride, cinque scrittori leggeranno altrettanti racconti inediti. Io sono fra questi. Insieme a me parteciperanno al reading Ivan Cotroneo, Walter Siti, Mario Fortunato e Valeria Viganò. I racconti sono stati raccolti in un volumetto che sarà distribuito gratuitamente durante la serata e nei giorni successivi.