martedì 23 aprile 2013

‘tina 2013


Rieccoci: ‘tina, la rivistina di narrativa più pigra d’Italia, ma anche una delle più longeve (siamo al... diciottesimo anno, fa impressione!), torna sul web con un numero nuovo e ricco di contenuti spettacolari. Stavolta tiriamo fuori l’artiglieria: un racconto comico da lacrime agli occhi, tre testi brevi di un arzillo settantaduenne, un inedito di un vincitore del premio Calvino, una nuova storia di una esordiente-rivelazione degli ultimi mesi e un capitolo inedito (e altresì erotico) di un candidato al premio Strega di quest’anno. Come sempre, tutto gratis, da scaricare subito qui. Ta-taaam!


mercoledì 17 aprile 2013

LA PASSIVITÀ DELL’ESORDIENTE


Tempo fa ho letto in rete la lamentazione di uno scrittore che ironizzava sugli alunni, talvolta tremendi, che si ritrovava nei corsi di scrittura. Il suo sfogo ha subito scatenato una levata di commenti dilapidatori, che in buona sostanza si potevano sintetizzare in un unico affondo: “Tu, scrittore affermato e pubblicato (e dunque privilegiato) ti prendi gioco di poveri aspiranti scrittori che il mondo dell’editoria (cieco, gretto e insensibile) non riconosce, azzerando crudelmente i loro sogni. Come ti permetti?”. 
Questa posizione critica è ovviamente del tutto contestabile: intanto perché la letteratura è piena di romanzi nei quali gli autori prendono di mira il contesto lavorativo dal quale provengono (quanti libri satirici abbiamo letto sui colleghi d’ufficio, i capoccia dei call-center, i manager in carriera?), quindi non si capisce perché proprio un insegnante di scrittura non avrebbe il diritto di scriverne. In secondo luogo perché l’ambizione a ottenere qualcosa non è ragione sufficiente per essere legittimati. Anch’io posso aspirare a diventare un cantante pop, ma se poi sono stonato non è il crudele mondo della discografia a distruggere i miei sogni quanto la mia mancanza di talento. 
Mi è capitato più volte di fare lezioni in scuole di scrittura e ho avuto la fortuna di avere spesso classi attente, reattive e stimolanti. Anche a me però è successo di trovarmi davanti alunni in grado di generare solo sconforto. Si trattava di individui comunque ammirevoli e intoccabili perché mossi dal sacro fuoco della scrittura? Ma manco per idea. Ogni tanto anche fra gli scrittori in erba ci sono gli ignoranti arroganti e non si può pretendere da me che non li cataloghi come tali. 
Chi insegna in queste scuole sa inoltre che una certa percentuale di iscritti non arriva con l’intenzione reale di apprendere tecniche. In realtà, ha già pronto il proprio romanzo e attraverso il corso spera in qualche modo di ottenere il metodo per estrarlo dal cassetto e farselo pubblicare.  
A questo proposito c’è un aspetto che mi sembra venga messo poco in evidenza da coloro che si occupano di aspiranti scrittori: il problema della loro passività totale, assoluta. A volte ho l’impressione che l’esordiente assuma una posizione che lo esautori da ogni attività altra: ha scritto, il suo compito è terminato, ha già fatto a sufficienza. Tutto il resto (essere scoperto, letto, editato, pubblicato) tocca ad altri. 
Per esperienza personale in anni di lezioni e incontri posso dire che statisticamente nessuno conosca, o abbia sentito nominare, le riviste di narrativa. Il che mi è sempre sembrato un paradosso ingiustificabile: ignorare il primo canale che permette un confronto diretto (redattori disposti a leggere i tuoi racconti) e indiretto (leggere racconti di altri esordienti come te), nonché la prima possibilità di pubblicazione (uscire su una rivista è più facile che trovare un editore per il primo romanzo) e al contempo ottenere un minimo biglietto da visita col quale presentarsi a eventuali editori (non sono un esordiente assoluto, i miei testi sono già stati selezionati da questa e questa rivista). 
Inoltre ho verificato che esiste una formula esoterica in grado di riaccendere all’istante un’intera sala di ascoltatori disinteressati e sonnecchianti, più efficace e immediata di una botta di cocaina: “Ora vi fornirò un elenco di case editrici che pubblicano esordienti”. Ecco che tutte le nuche si rialzano, gli occhi si accendono, le orecchie si spalancano, le penne poggiano tremanti sul foglio pronte a trascrivere ogni parola. La famosa chiave d’accesso al mondo dorato: ve la sto svelando. 
Dalle continue richieste (scusi può ripetere?) mi rendo conto che si tratta di case editrici da loro mai sentite nominare prima, ma questo non sembra rappresentare un problema: è importante capire bene il nome dell’editore, non conoscere il suo catalogo. Raramente avviene che, dopo questo elenco magico, qualcuno mi faccia domande su che tipo di libri pubblica questa o quell’altra casa, che voglia indagare l’ambito narrativo dell’editore per capire se il proprio testo possa essere adatto. 
Pubblicano esordienti? Allora vanno bene. Tutte.  
(A una veloce indagine risulta poi che di case editrici conoscono giusto Mondadori, Einaudi e Rizzoli, che la frequentazione delle librerie è rara, che ignorano i piccoli editori e che l’idea di scoprire e approfondire queste realtà indipendenti non viene minimamente percepita come loro dovere o interesse). 
Gli esempi di passività non sono prerogativa esclusiva di qualche pessimo alunno, ma si manifestano ripetutamente anche attraverso i contatti telematici. 
Talvolta ricevo mail di autori che si premurano di specificare: “Confesso di non averla mai sentita nominare prima, ma ho saputo che collabora con diverse case editrici, quindi le mando questo manoscritto nella speranza che susciti il suo interesse...”. Un altro esempio di passività spettacolare: non hanno la più vaga idea di chi sia colui a cui si stanno rivolgendo, ma la sua prossimità al mondo editoriale è tale che non importa. Ancora una volta l’ambizione alla pubblicazione trascende ogni altro aspetto. Uno sconosciuto ti chiede di dedicargli ore nella lettura di un suo testo, mentre lui si è guardato bene dallo sprecare quei dieci secondi che gli sarebbero serviti per digitare il tuo nome su Google. 
Alcuni estendono il proprio grado di passività persino sulla produzione letteraria che mi sottopongono: “Ho scritto solo questo racconto, non so se valga qualcosa, vedi tu se vuoi pubblicarlo da qualche parte”. Oppure: “Non mi considero uno scrittore, però anni fa ho scritto questo romanzo che è rimasto nel cassetto, ho pensato di mandartelo così mi dici cosa farne”. Non sono neanche in grado di giudicare se stessi (la propria opera, le proprie aspirazioni), demandano anche questo a un osservatore esterno. 
Una formula di genericità più recente riguarda i blog: “Ciao da qualche mese pubblico i miei racconti su un blog. Vedi se ce n’è qualcuno che ti piace da pubblicare sulla tua rivista...”. Non si preoccupano di selezionare i racconti da inviarmi, presumono che sia io a doverlo fare, leggendomeli tutti. Qualcuno si spinge anche oltre:  “Questo è il mio blog. Dicono tutti che scrivo molto bene. Leggilo e dimmi se secondo te ho delle qualità. Mi piacerebbe scrivere un libro, ma sai, sono un po’ insicuro...”. Siamo arrivati al punto che non devo giudicare un romanzo, ma la sua potenzialità: il testo non esiste ancora, certo l’autore non si prende la briga di investire tempo ed energie nella stesura di un romanzo: tocca a me dargli la rassicurazione preventiva che lo spinga a farlo. 
Infine, il vertice della passività estrema: c’è anche chi non si premura di specificare alcuna richiesta. Mi inviano un link del blog e basta

Viene da chiedersi: è cambiato/cambierà qualcosa con l’avvento dell’ebook e dell’autopubblicazione digitale? 
Teoricamente dovrebbero esserci dei mutamenti: l’autore che produce da sé il proprio libro elettronico non solo deve scriverlo, ma anche impaginarlo, editarlo, promuoverlo. Non c’è più spazio per la passività precedente. Occorre fare, investire tempo, energia. 
Tuttavia ho il sospetto che per il momento le cose non siano mutate molto: da ciò che vedo e leggo, pubblicare il proprio ebook funge da contentino temporaneo. La maggior parte degli autori aspira all’uscita cartacea presso una casa editrice reale e considera il libro elettronico alla stregua di un veicolo autopromozionale (intanto esco così, speriamo che qualcuno mi noti). 
L’ansia promozionale si manifesta anche nelle richieste esplicite che ognuno di noi riceve via mail o sulle bacheche Facebook (“Ho pubblicato il mio primo ebook, hai voglia di leggerlo? Costa solo 6.99”). Non sempre sono moduli generici, ma messaggi personali (“Ciao, so che ti occupi di autori esordienti e volevo annunciarti la vendita del mio...”): anche gli eventuali talent-scout sono percepiti come possibili acquirenti. Sul selvaggio mercato digitale tutto fa brodo. 

In conclusione: perché ho scritto questo articolo? Perché amo la scrittura. Perché ho aiutato diversi autori in erba a esordire (il momento, bellissimo e irripetibile, quando chiami qualcuno per annunciargli che il suo primo libro verrà pubblicato). Perché ho avuto la fortuna di incontrare alcuni alunni strepitosi nelle scuole di scrittura e con alcuni di loro (a volte intere classi) ho mantenuto rapporti di amicizia che si sono protratti negli anni. Perché continuo a passare parte del mio tempo libero a leggere testi di sconosciuti totali che richiedono attenzione e consigli. Insomma perché mi sento legittimato a dire che no, la bella e nobile intenzione di voler diventare scrittore non ti rende migliore e non giustifica l’aria offesa che assumi se qualcuno fa ironia su di te.
Scendi dal piedistallo: anzi, mi duole fartelo notare ma, in effetti, non ci sei mai salito. 



martedì 9 aprile 2013

TELEVASIONE


Da diversi anni ormai mi capita occasionalmente di assistere a un fastidioso fenomeno sociale. 
Sono a una festa, o a una cena o a un incontro alla presenza di sconosciuti. Quando il discorso cade sulle reciproche professioni e rispondo “Faccio l’autore televisivo” capita che qualche interlocutore si affretti a dichiarare “Scusa, non ho la televisione”. 
La reazione mi sorprende sempre. In primo luogo perché non capisco il bisogno di giustificarsi: se qualcuno dice che fa il meccanico nessuno risponde “Scusa, la mia macchina funziona benissimo”, se si presenta una maestra d’asilo nessuno si premura di replicare “Scusa, non ho figli al di sotto dei sei anni”. Il fatto che io lavori in tv non implica che tu debba possedere l’apparecchio o usufruirne. Anzi, sinceramente, chissenefrega. Per quanto mi riguarda puoi anche non avere caloriferi o fare il bagno solo nel latte di capra. Però è chiaro che il sottotesto qui sia un altro: dichiarare di non possedere il televisore significa tracciare un confine, sottolineare una diversità di vedute. Chiedono scusa, ma il tono è quello di chi si vanta. Il significato reale della frase sembra essere: “Io con quella roba non voglio averci niente a che fare”. E la prova di questo talibanesimo è che la giustificazione precede sempre la specifica riguardante i programmi per cui lavoro. Potrei essere autore di “Report” o “La prova del cuoco”, per loro sarebbe uguale. Vogliono sottolineare che rifiutano lo strumento in toto, al di là dei suoi contenuti. Ci tengono a farlo. 
Talvolta la faccenda finisce misericordiosamente lì (sono a una festa per svagarmi, l’ultima cosa di cui vorrei parlare è il lavoro, come tutti immagino). Spesso però avviene il contrario: basta che la sillaba “tv” venga evocata perché lo sconosciuto si senta in dovere di aggiungere, a riprova del proprio disprezzo, anche un commento sulla scena penosa avvenuta l’altro giorno in quel talk show pomeridiano o nel tale programma del sabato sera, che certamente lui non ha visto, ma ne ha letto sul giornale e ne ha trovato spezzoni su internet. (Non so cosa si aspetti da me, in questo caso: che difenda la categoria dei lavoratori dello spettacolo in generale? Che giustifichi comportamenti di personaggi che magari io stesso detesto, avvenuti in programmi che non guardo? Che mostri di avere notizie specifiche e di prima mano sullo svolgimento dell’episodio in questione? Boh). 
Altrettanto di frequente avviene che la mia professione venga presa come metro di giudizio nei miei confronti per qualunque cosa: se non sono a conoscenza di un fatto di cronaca (“Mi meraviglia che proprio tu che lavori in televisione...”), se non rido a una battuta (“Certo che per essere un autore tv non sei così ironico...”), se ignoro l’identità di certi personaggi (“Ma come? Tu che frequenti questo ambiente...”). Lavorare in tv ai loro occhi significa evidentemente essere al centro del mondo e della conoscenza, mi rende onnisciente e mondano. Mio malgrado. 
Ormai temo la situazione. Un paio di volte, in occasioni sociali, mi sono trovato a mentire: “Faccio ricerche marketing per prodotti industriali”. La noia negli sguardi degli astanti come salvezza per la mia serata.


venerdì 5 aprile 2013

RIVISTE INTERVISTE - “THE MILAN REVIEW”


Come sapete, sono un grande appassionato di riviste letterarie. Non solo mi piace farle (a proposito, il nuovo ’tina è finalmente pronto, sarà on line a giorni), ma soprattutto leggerle, sfogliarle, collezionarle, diffonderle. Ogni volta che mi confronto con una comunità letteraria, sia che si tratti di una lezione di scrittura creativa, un incontro in libreria o un seminario, mi rendo drammaticamente conto di quanto poco i lettori siano consapevoli dell’esistenza di queste riviste e della loro validità. Per contribuire (anche marginalmente) a una maggiore visibilità ho deciso di fare alcune interviste ai fondatori e ai redattori di queste pubblicazioni. 
Comincio questa serie con The Milan review, rivista distribuita in forma di volumi rilegati dalla grafica curatissima e che ha una curiosa caratteristica: quella di essere realizzata in Italia, a Milano (come ovviamente suggerisce il titolo), ma pensata per il mercato internazionale, quindi in lingua inglese. 
Di questa scelta, e di molto altro, ho parlato con uno dei due fondatori, Tim Small.



- Perché hai fondato una rivista letteraria?

Perché le riviste letterarie sono belle e fighe e mi piace farle! In altre parole: quando ho fondato The Milan Review con il mio socio Riccardo Trotta, che cura la grafica e l'art direction, lavoravo da Vice Italia e volevo fare qualcosa di un po' più legato alla letteratura, dato che tramite l'annuale di narrativa di VICE, che io curavo, mi sono innamorato dell'idea. 

- Ogni numero ha una grafica e un aspetto differente. Come scegliete queste edizioni? In base al tema dei testi? Per il desiderio di sperimentare diversi formati ? O semplicemente per assecondare i vostri gusti di volta in volta?

Guarda, in realtà è un po' di ogni cosa. A volte mi trovo in mano quattro testi tutti legati a un tema e dico, OK, costruiamoci attorno un numero—come fu il caso del primo numero, The Milan Review of Ghosts. A volte, come nel caso di The Milan Review of The Universe,  l'idea nasce a monte e poi comunichiamo il tema agli autori. Non c'è un vero e proprio metodo. Quello che posso anticiparti, però, è che dal prossimo numero le cose saranno un pelo diverse. Abbiamo intenzione di rendere la rivista un po' meno ermetica e un po' più comprensibile in quanto rivista. Come prima cosa, avremo una testata vera e propria. 

- I numeri sono monografici. Dopo quello dell’universo e quello dei fantasmi, l’ultimo (il tre) è sull’adulterio, ma è composto da una singola novella. Ti piace avere la libertà di sperimentare anche in questo senso? 

Assolutamente sì. Ho sempre pensato che i temi aiutassero lo sforzo creativo. Ma è anche bello fare cose senza tema, a volte, come sarà il caso del prossimo numero, che per la prima volta sarà aperto a fotografia, interviste, e articoli. Sarà più una rivista-rivista. Sarà molto, molto diversa...

- Quanto ti ha ispirato l’esperienza di altre riviste internazionali (penso soprattutto a “McSweeney’s”)?

Moltissimo.

- La scelta dell’inglese è interessante perché la rivista, per quanto realizzata interamente in Italia, si rivolge al pubblico internazionale. Come stanno andando le cose? Come è stata accolta?

È stata accolta molto meglio in America che in Italia! Indubbiamente. Ma d'altronde, come fai notare giustamente tu, è in inglese.

- Una volta aperto questo spiraglio dall’Italia verso il pubblico anglofono, non avrebbe senso pensare a un numero di racconti di autori italiani? O non ti interessa perseguire questo tipo di divulgazione?

Mi interessa eccome. Già nel secondo numero ho pubblicato racconti di autori italiani come Chiara Barzini e Francesco Pacifico, ma erano scritti in inglese. Prima o poi vorrei fare un libro o una sezione speciale di soli scrittori italiani tradotti in inglese. Ad esempio, Tondelli e Arbasino sono praticamente introvabili in inglese.