domenica 20 dicembre 2015

CHE LIBRO REGALO A NATALE?

Il mio libro preferito dell’anno è “Sembrava una felicità” di Jenny Offill (NN editore), di cui ho già parlato qui e che consiglio vivamente. Accanto a questo ci sono altre interessanti alternative, che vado a elencare. 



AAVV
Quello che hai amato
(a cura di Violetta Bellocchio)
(UTET)

Abbiamo le prove” è una rivista on line di non-fiction che raccoglie testimonianze di esperienze vissute da donne. Racconti personali che spaziano dalle esperienze sentimentali agli incontri con le popstar, dalle difficoltà sul lavoro ai rapporti complicati con la famiglia, insomma tutto quello che vale la pena essere riportato. Se ancora non lo conoscete vale assolutamente una visita, anche sulla base del fatto che l’anno scorso ha vinto il premio dei Macchianera Awards come miglior sito letterario italiano. 
Ideatrice e curatrice del progetto è una delle più talentuose scrittrici italiane, Violetta Bellocchio, che sulla base di questa esperienza ha dato vita all’antologia “Tutto quello che hai amato”. Negli undici racconti che compongono il libro le autrici raccontano esperienze molto diverse fra loro: una difficile estate come ragazza alla pari in una famiglia irlandese, la tormentata storia del bisnonno emigrato in America a cui la moglie traditrice non concederà mai il divorzio, la fissazione maniacale per un film che diventa una sorta di rifugio dove cercare di ritrovarsi, il ricordo delle angherie subite in un paesino di provincia mentre il jukebox trasmette una canzone di Spagna... Storie a volte sofferte, a volte bizzarre, ma sempre dannatamente reali.
Una raccolta di alto livello letterario, che è anche un regalo ideale per l’amica del cuore. 



ELENA GHIRETTI
L’intelligenza della specie
(Baldini & Castoldi)

Un altro talento dalla fucina letteraria di ‘tina: dopo il racconto pubblicato sul numero 29 della rivistina, arriva in libreria con il suo primo romanzo Elena Ghiretti. 
“L’intelligenza della specie” mette in scena il delicato equilibrio fra tre coppie di amici che viene pericolosamente a incrinarsi quando una di loro sviluppa un’ossessione amorosa verso il fidanzato di un’altra. Ambientato in una Milano elitaria, tra brunch all’Hangar Bicocca, vernissagge al Fuori Salone e spese rigorosamente al supermercato bio, è un romanzo che esamina la fissazione del tutto contemporanea per le scelte giuste (la marca di moda non ancora esplosa, il paesino di villeggiatura fuori dalle tappe turistiche) e per un’esistenza che è all’insegna (inconsapevole?) dello sfoggio continuo. 
Una realtà sociale mai rappresentata con altrettanta precisione e cattiveria, con una lingua e uno stile che sembrano la somma impossibile fra l’algida precisione di Bret Easton Ellis e l’appassionata milanesità di Brunella Gasperini.  
Il commento più efficace è stato quello di una mia amica, che dopo averlo letto ha dichiarato a proposito dei protagonisti del libro: “Li odiavo ma non riuscivo a staccarmene”. 



DONAL RYAN
Il cuore girevole
Trad. di Andrea Binelli 
(minimum fax)

Romanzo di debutto dell’irlandese Donal Ryan, due volte premiato come “libro dell’anno”, “Il cuore girevole” rappresenta uno di quegli esempi (ultimamente a me molto cari) di testi in grado di coniugare una storia interessante con un impianto narrativo originale. Potremmo infatti definirlo come la quintessenza del “romanzo corale”, dal momento che protagonista della storia non è un singolo personaggio ma l’intera comunità, chiamata qui a testimoniare in forma di personalissimi monologhi. Ogni capitolo rappresenta il punto di vista di un abitante di un piccolo paese della provincia irlandese travolto da una serie di drammatici avvenimenti (una truffa ai danni di svariati operai, un delitto familiare, una chiacchierata relazione clandestina). A modo suo ciascuno racconta come sono andate le cose, a volte confermando, a volte contraddicendo le testimonianze precedenti. Uno schema dal sapore pirandelliano nel quale emerge una sorta di verità comune al termine della lettura: l’eroica difficoltà di far prevalere il bene in una comunità provinciale, povera e spesso meschina. L’autore riesce sapientemente ad aggiungere particolari via via che i testimoni si susseguono, rendendo la vicenda più comprensibile pur senza essere mai completamente risolta, lasciando al lettore il dovere di trarre conclusioni pratiche e morali. 



MERRITT TIERCE
Carne viva
(Trad. di Martina Testa)
(Sur edizioni)

A volte i romanzi sanno essere spietati e farci aprire gli occhi su realtà che preferiamo ignorare. In questo “Carne viva” veniamo a scoprire il dietro le quinte del mondo della ristorazione americano attraverso gli occhi di uno dei suoi protagonisti minori: una semplice cameriera. La vita di Marie è scandita da una successione di locali: bar, ristoranti, tavole calde. Posti dove le giornate sono tutte uguali, i turni massacranti, i clienti petulanti con le loro continue richieste e soprattutto dove è facile essere licenziati in tronco per un motivo qualsiasi. La stessa interruzione del rapporto di lavoro non è vissuta come un dramma: a un posto desolante ne seguirà un altro altrettanto squallido, in una sorta di pellegrinaggio infinito. Per sopportare una simile routine esistono poche scappatoie: ubriacarsi, farsi di una droga qualsiasi e scopare con il primo che capita, che sia il lavapiatti o il cliente danaroso, sono modi come altri. 
L’aspetto che più colpisce (che più ferisce?) di questo romanzo è l’assenza di rivendicazioni: Marie subisce tutto questo con una forma di accettazione assoluta. Non sembra neppure considerare l’ipotesi che possa ribellarsi o che la vita possa offrirle di meglio. E, in verità, probabilmente ha ragione. 
Merry Christmas to you.   



PAULA HAWKINS
La ragazza del treno
(trad. di Barbara Porteri)
(Piemme)

Mi conoscete, io non consiglio mai dei best-seller, anzi in genere li detesto. Faccio un’eccezione in questo caso perché qui ci troviamo di fronte a una combinazione fortuita: un thriller appassionante basato su una struttura letteraria insolita. 
È possibile risolvere un caso poliziesco gettando uno sguardo sulla scena del delitto da un treno in corsa? Più o meno è quello che tenta di fare la protagonista di questo giallo atipico che, osservando una casa dal finestrino del convoglio pendolari che prende tutti i giorni, comincia ad accumulare dettagli e considerazioni che possono rivelarsi fondamentali per scoprire l’autore di un delitto. 
Ogni capitolo del romanzo è suddiviso in viaggio d’andata e viaggio di ritorno, un espediente letterario che lo rende diverso da ogni altro romanzo di genere letto finora. 
Io l’ho divorato in un giorno e mezzo. 




JOHN CHEEVER
Una specie di solitudine (I diari) 
(trad. di Adelaide Cioni)
(Feltrinelli)

Cheever è un maestro del racconto americano (su tutti, basti citare “Il nuotatore”, esempio magistrale di short-story dal quale è stato tratto un film con Burt Lancaster), ma la pubblicazione postuma dei suoi diari ha fatto scoprire un altro lato, altrettanto magnifico, del suo talento come scrittore: quello di osservatore acuto e compassionevole della difficoltà di vivere. In queste pagine Cheever scandaglia il proprio animo registrando ogni sfumatura: l’impossibilità di accontentarsi della serenità offerta dalla propria famiglia, l’ossessione costante del sesso in una miriade di sfaccettature (la scollatura della cameriera in un diner, lo sguardo provocatorio di un ragazzo sul treno), l’ansia di non essere uno scrittore all’altezza dei suoi contemporanei, i ricordi di un’adolescenza segnata dalla solitudine. Curiosamente nel testo sono assenti le date, quasi un’incongruenza trattandosi di un diario, però questo conferma si tratta di un libro più vicino a una raccolta di meditazioni che a una cronaca quotidiana. Pubblicato in Italia tre anni fa, il volume è da poco uscito in edizione tascabile. Se siete quel tipo di lettore che ama sottolineare frasi significative, in queste 500 pagine avrete un bel daffare. 



EMILIANO PONZI
The journey of the Penguin
(Penguin)

Per finire, un libro senza parole, di sole immagini.
Emiliano Ponzi è in questo momento l’illustratore italiano più apprezzato al mondo: sue tavole compaiono sulle copertine di libri internazionali, sugli inserti di Repubblica e di Le Monde, sulle copertine del New Yorker, di Variety, di Internazionale e di Le nouvel observateur. (Come una di queste sia finita sull’ultimo numero di ‘tina rasenta l’inspiegabile). 
Il fatto che un editore storico come Penguin abbia affidato a lui il volume per celebrare i suoi 80 anni di attività la dice lunga sul livello di considerazione (meritatissimo) che Ponzi è riuscito a guadagnarsi in questi anni. 

Per descrivere “The journey of the penguin” mi verrebbe da usare l’aggettivo ‘poetico’, ma mi tratterrò dal farlo. Diciamo invece che Emiliano ha avuto l’ardire di arrivare a immaginare la storia di un semplice pinguino che dal polo nord arriva a New York per conquistare la fama come emblema della casa editrice nota in tutto il mondo. Un’epopea suggerita attraverso una serie di tavole di assoluta bellezza, per il tratto e per la visionarietà. 

giovedì 3 dicembre 2015

IN ASSENZA DI MOVIMENTO

Sono da anni un ammiratore di Oliver Sacks, che ha il grande merito di aver saputo coniugare narrativa e divulgazione scientifica con una formula del tutto personale, riuscendo ad avvicinare lettori anche digiuni di conoscenze specifiche a temi legati alla neurologia e alla psichiatria con un approccio entusiasta e contagioso.
Il suo ultimo lavoro (che purtroppo resterà tale, poiché è scomparso pochi mesi fa) è un’autobiografia intitolata “On the move” che ha creato un certo scalpore sulla stampa di mezzo mondo (da noi, “Il venerdì” di Repubblica gli ha addirittura dedicato una copertina) poiché in queste pagine Sacks compie un tardivo coming out, rivelando per la prima volta, a ottant’anni suonati, di essere omosessuale.   
La circostanza è sorprendente da svariati punti di vista. In primo luogo perché desta meraviglia che un uomo tanto reticente sulla propria identità sessuale senta il bisogno di svelarla in età così matura. Poi perché non si tratta della prima autobiografia di Sacks: nella precedente (“Zio Tungsteno”, sebbene concentrata particolarmente sull’adolescenza e la prima giovinezza) non ne faceva minimamente accenno. Infine perché è curiosa in sé la semplice constatazione che la sessualità di un neurologo (non uno sportivo, un cantante, un politico, un attore) faccia notizia. 
Va anche detto che nella comunità omosessuale mondiale parte dell’eco mediatica sia dovuta alle foto scelte per l’apparato iconografico del volume, e in particolare per quella utilizzata nella copertina, che immortala un’aitante Sacks ventottenne a cavallo di una moto BMW per le strade di New York: giubbotto di pelle, fisico prestante, cranio rasato, sguardo sexy da attore hollywoodiano. Che il giovane neurologo fosse un idolo erotico alla stregua di un Marlon Brando delle corsie ospedaliere nessuno poteva sospettarlo. In molti (nella mia cerchia di conoscenze, tutti) hanno trattenuto il fiato dallo stupore alla vista di quella immagine: un’ondata di lussuria retroattiva. 

La curiosità di leggere questa inaspettata autobiografia era dunque alta. Il libro è uscito ora anche in Italia, pubblicato da Adelphi (come il resto della bibliografia di Sacks), col titolo “In movimento” (traduzione di Isabella C. Blum, 400 pagine, 22 euro), ma si tratta, purtroppo, di una parziale delusione.
A differenza di altri testi di Sacks, ho avuto l’impressione di uno scarso bilanciamento fra il materiale più strettamente autobiografico e quello scientifico. Ripercorrendo la sua carriera, lo studioso rievoca molti dei temi sui quali ha centrato i propri libri (in particolare, in modo quasi ossessivo, sul volume “Su una gamba sola”), talvolta entrando troppo nello specifico per un libro che intende essere più il percorso di un’esperienza umana che di quella professionale. Gli ultimi capitoli del testo, dedicati alle nuove teorie sul funzionamento della mente, perdono in modo quasi completo il carattere autobiografico per sposare quello  divulgativo.   
Per quanto poi riguarda la propria sessualità, Sacks è senza dubbio onesto ma anche piuttosto avaro di dettagli. Meraviglia per esempio che avesse dichiarato da subito la sua omosessualità alla famiglia, in un’epoca nella quale non era facile compiere una simile scelta, benché avrebbe poi dovuto attendere anni prima di provare a dare corpo ai suoi desideri. Una coraggiosa esigenza di sincerità privata alla quale ha corrisposto a un riserbo pubblico durato quasi una vita. Tuttavia ogni tanto al lettore viene da chiedere perché abbia scelto di svelare questo aspetto se poi finisca per ridurlo a poche righe. Per esempio, dedica qualcosa come cinque pagine per raccontare una noiosa sosta forzata in un’area di servizio durata un intero weekend a causa del guasto della sua moto, mentre condensa una scena di seduzione avvenuta nel dormitorio dove alloggiava a tre righe. Nell’economia di un testo disarmonie simili si fanno notare. 
Attenzione, so che questo discorso rischia di essere frainteso e voglio spiegarmi meglio: non mi attendevo pagine bollenti di narrativa erotica, non avrebbe avuto senso da un uomo con quel carattere e con quel tipo di bibliografia alle spalle. Al contrario: le avrei trovate fuori luogo e forse del tutto gratuite. Allo stesso tempo non posso trattenere la mia delusione nel constatare che un autore che ha dedicato la vita ad analizzare con tanto acume i comportamenti altrui e che ha spesso dedicato la stessa curiosità scientifica verso se stesso (la perdita di sensibilità a una gamba, il potere della musica sulla propria capacità di concentrazione, la fascinazione infantile verso la chimica...) si riveli così poco incline ad esplorare un aspetto tanto rilevante dell’esperienza umana. Quando Sacks scrive, al termine di una delicata scena erotica avvenuta in un lago, che da quel momento non avrebbe più avuto rapporti sessuali per i successivi 35 anni, il lettore rimane oggettivamente sconcertato. Un così lungo oblio, senza spiegazione, né giustificazione di sorta, è quantomeno anomalo per un individuo qualsiasi; per chi sta scrivendo la propria autobiografia è invece un assoluto azzardo. 
Dico “il lettore” perché suppongo queste siano sensazioni condivisibili, ma non escludo che possa trattarsi di “il lettore Matteo B. Bianchi” e basta. Le delusioni hanno caratteristiche del tutto individuali, si sa.
Se il sesso non ha mai avuto un posto di rilievo nell’esperienza di Sacks, la vita comunque ha voluto regalargli una tardiva gioia, facendogli sperimentare per la prima volta il piacere di una relazione stabile dopo i 70 anni. Eppure, anche qui, avendo a disposizione un elemento potentissimo da un punto di vista narrativo, preferisce liquidarlo in poche (sebbene affettuose) righe. 

Non posso che considerarla come una prova ulteriore per rafforzare la mia tesi: che a un uomo che ci ha aperto così tanto la mente, neanche la forza di un amore tardivo è stata in grado di spingerlo ad aprirci il cuore.  


lunedì 23 novembre 2015

'tina TRENTA

Il nuovo numero di 'tina, la rivista di narrativa indipendente che curo da una spropositata quantità di anni, è finalmente pronto. Dopo il successo dell’ultimo numero, anche questo esce in versione cartacea, e sempre in edizione limitata.
Moltissime sono le novità che lo riguardano, a partire dal formato: se il precedente era un volumetto extra-pocket, che si poteva contenere in una mano, questo -per reazione- è di grandi dimensioni. Un 'tina formato tabloid che ricorda quello dei quotidiani, realizzato dal genio grafico di Andrea Bozzo.  
L’immagine di prima pagina ancora una volta è opera di un celebre artista, Emiliano Ponzi, uno degli illustratori italiani più affermati in Italia e nel mondo, che con grande generosità non solo ha regalato la cover della rivistina, ma ha anche coinvolto gli studenti del corso di illustrazione che tiene ogni anno per il Mimaster di Milano, rendendo così questo il primo numero di 'tina interamente illustrato. 
Gli scrittori presenti nel numero sono un mix di esordi e affermazioni, e includono i debuttanti Natan Mondin e Walter Comoglio, i nomi già noti di Emanuele Kraushsaar e Giorgio Pirazzini, e un racconto inedito firmato dal cantautore Niccolò Contessa, noto nel mondo musicale come “I Cani”.
Il numero è stampato in sole 200 copie, firmate e numerate, e non ci sarà nessuna ristampa successiva. 
La prima occasione per mettere le mani su questi rarissimi esemplari è lunedì prossimo, 30 novembre, dalle 18 alle 20, all’Upcycle café, di via Ampere 59 (fermata metrò Piola), a Milano. Come da tradizione, non ci sarà alcuna presentazione, né un reading: solo un’occasione per bere qualcosa insieme scambiare due chiacchiere.
Una secondo incontro è in programma per Roma, in data da comunicare, e forse una terza città, ancora da definire.

Intanto, vi aspetto lunedì prossimo.  


lunedì 2 novembre 2015

LA PAROLA AI LIBRAI: 13 - DANILO DAJELLI (MILANO)



Cosa ti ha spinto ad aprire una libreria?
Forse ci sono delle cose che ti appartengono e basta. Non è (solo) questione di sogni, ma di mestieri, vocazioni che abbiamo da sempre e che ognuno di noi ha il dovere di trovare per vivere bene. Io, ad un certo punto, non ho avuto dubbi su quello che volevo fare: volevo aprire una libreria. Non solo fare il libraio, ma costruirne, progettarne una mia, pensata e studiata come io immaginavo dovesse essere. Meglio: sapevo che prima dovevo imparare a fare il libraio, poi avrei potuto farlo a modo mio. E quello di Gogol and Company è stato un progetto che è andato avanti per anni prima che potessi vederlo concretizzarsi: un continuo scambio di idee con mia moglie, con amici, con persone di cui mi fido e che hanno visioni del mondo intelligenti, aperte, spesso diverse dalle mie, senza il cui contributo comunque oggi questo posto non sarebbe quello che è.

Come pensi sia cambiato il lavoro del libraio negli ultimi 10 anni?
Penso sia radicalmente cambiato. Oggi il libraio dev'essere soprattutto imprenditore. E questo non significa rinunciare alla figura sociale e culturale che fare questo lavoro implica, ma arricchirla.
Gli spazi in cui è possibile acquistare un libro si sono moltiplicati, diversificati ed espansi, così come sono cambiate le modalità e i supporti di lettura. Se pensi che ci sono distributori di libri nelle stazioni dei treni e che online gli utenti scaricano i libri (più o meno legalmente), per fare un paio di esempi, è evidente quanto il libro abbia radicalmente modificato le proprie forme di diffusione. La libreria, come è stata intesa negli ultimi vent'anni almeno, non esiste più. Come tantissimi altri spazi che hanno caratterizzato la vita sociale italiana negli ultimi decenni.
Ricordo con piacere il commento di un importante antropologo italiano che venne a visitare il nostro spazio a circa un anno dall'apertura. Disse che gli ricordava un'osteria per come la gente si muoveva e si parlava. Qui ci si incontra senza appuntamento, è un luogo in cui vale il termine “passare del tempo” nella sua accezione più ampia, dove puoi rimanere a sfogliare libri seduto su una poltrona, ma anche lavorare con il computer bevendo caffè americano, o trovare qualcuno con cui passare del tempo, conoscersi, scambiare idee e certe volte ritrovarsi. La libreria deve tornare a essere luogo d'incontro, di dibattito, spazio per fermarsi e per vivere esperienze che, nel nostro caso, sono sia letterarie che enogastronomiche. 


So che è impossibile, ma se dovessi identificare un tuo cliente standard più o meno come lo descriveresti?
Non mi è difficile rispondere perché abbiamo lavorato a lungo per fare in modo che il nostro cliente tipo fosse piuttosto giovane, tecnologico, attento non solo e non tanto ai fenomeni mainstream quanto più alle dinamiche underground. Una persona che frequenta questo spazio e che riesce a riconoscere con immediatezza quelli che sono i percorsi che esso offre: legati al mondo dei libri, della letteratura, all'arte, ma anche alle degustazioni di prodotti, o alle attività creative, alle serate musicali o di intrattenimento di vario genere. Una persona però che ci segua anche sul web, che comunichi con noi su tutti i canali possibili, che ci aiuti ad arrivare ad ancora più persone.
A fianco di quello che per noi rappresenta il cliente ideale, c'è un'altra tipologia di cliente importantissimo ed è l'abitante di questo quartiere. Il nostro è uno spazio che si è sempre proposto come presidio e riferimento, del quartiere in primis, poi del resto della città. 
Quello che però, secondo me, fa davvero tornare in questo posto, quello che – con lo stesso meccanismo - fa in modo che io torni in un posto che mi piace, è l'attenzione che ognuna delle persone che lavora qui dentro dedica a ogni cliente. Riconoscere, chiamare per nome, ricordare i gusti letterari di un lettore. Tutti piccoli accorgimenti che permettono di sentirsi accolti, guardati, ricordati,  in un'atmosfera che ha quantomeno le potenzialità per diventare familiare.

Qual è la soddisfazione maggiore che ti da il tuo lavoro?
Mi piace riconoscere ma anche essere riconosciuto. Quando passeggio per il quartiere e mi confronto con il panettiere, il fruttivendolo o il parcheggiatore mi piace essere riconosciuto come il libraio. Significa aver lavorato nel modo giusto con le persone del quartiere, aver oltrepassato il mero concetto di “commercio” per diventare “riferimento”. Mi fa sempre sorridere il ricordo del giorno in cui una ragazzina del quartiere è arrivata in lacrime in libreria per chiedere aiuto: il suo cane cucciolo era scappato ed era disperata. Ecco, Giulia che chiede aiuto nello spazio che ogni tanto frequenta, dove era certa avrebbe trovato ascolto e aiuto immediato rende esattamente quello che volevo dire nelle righe sopra.

Cos’è che ti fa davvero cascare le braccia?
La vittimizzazione della figura del libraio, martoriato difensore della cultura; le librerie da salvare per forza perché sono librerie; li libraio che non arriva a fine mese, nonostante metta l'anima nel proprio mestiere. Sono immagini iper-abusate di questi tempi, come il panda in via d'estinzione, no?
La società è cambiata, il commercio anche. È doveroso aggiornarsi e calarsi nel tempo in cui ci troviamo a vivere. Il nostro è un lavoro di costante ricerca, movimento, studio e aggiornamenti, è un lavoro che nasce dal confronto, dall'attenzione al mondo che ci circonda e alle sue evoluzioni. Con l'umiltà di imparare sempre, la volontà di  cambiare, quando necessario.

La cosa più assurda che ti ha chiesto un cliente?
Qual è il mio lavoro, per esempio. O se è possibile sedersi su una delle poltrone sparse nello spazio. O se si possono leggere o sfogliare i libri. Se il cibo proposto è gratis o va pagato. La costellazione di manifestazioni umane in uno spazio come il nostro è infinita e allo stesso tempo curiosa, alle volte insopportabile. Fa parte dei giochi, ammetto che spesso è anche divertente.

Il ricordo più bello della tua esperienza da libraio?
Ricordo con orgoglio quando fui invitato a raccontare l'esperienza di Gogol & Company all'interno della Scuola librai UEM. Dal banco alla cattedra nel giro di qualche anno.  Ci eravamo riusciti, Gogol & Company era diventata una realtà consolidata, adatta ad essere raccontata a chi condivideva la stessa vocazione, un progetto simile, magari presto ancora più evoluto.

Pensi che la presenza della tua libreria apporti un miglioramento al tuo quartiere/ alla tua città? Perché?
Se così non fosse chiuderei immediatamente il nostro spazio. Sono uno di quei milanesi insopportabili che si lamentano di tutto e tutti. D'inverno voglio il caldo e in estate il freddo.
Quando giro per il quartiere dove vivo e lavoro sono pretenzioso, spesso inorridito ma altrettanto spesso entusiasta. Voglio capire, partecipare, consigliare. 
Il nostro spazio ha contribuito molto alla crescita del Giambellino, che peraltro è una zona della città in totale e aperta trasformazione: la novità di Gogol & Company è stata immediatamente percepita dalla comunità come quasi necessaria. 
Prima di noi non c'erano librerie, nella piazza pedonale dove siamo collocati ci sono ancora almeno metà degli spazi commerciali vuoti, invenduti. La sicurezza sulla piazza e sulla strada è data dalle luci degli spazi come il nostro o come la pizzeria che abbiamo di fronte. Luce=presidio.
Vorrei, nella mia città ideale, uno spazio come il nostro in tutti i quartieri, magari aperto 24 ore al giorno, ognuno con una declinazione particolare, figlia del quartiere che lo ospita.
Utopia per ora, nel futuro chi può dirlo... 

Cosa può dare in più una libreria indipendente che i negozi delle grandi catene non possono dare?
Il riconoscimento di cui parlavo prima mi sembra un concetto da non sottovalutare. Nell'epoca dell'iper-edonismo, della virtualità (anche e soprattutto sociale) in cui mostriamo tutti gli aspetti del nostro vivere come istantaee, come post, come banner flashanti, l'essere salutati e ospitati può essere un valore prezioso. Sembra che leggere sia una caratteristica sempre meno pretesa ai colleghi della grande distribuzione. Per consigliare letteratura temo sia imprescindibile leggerne almeno un po'.

Ti capita di contribuire, nel tuo piccolo, al successo di qualche libro?
Quando ci appassioniamo a una lettura cerchiamo di condividerla con l'intera comunità di Gogol & Company. E adesso iniziamo a essere in tanti, nella comunità. Se piace un libro e tutti lo leggono significa venderne centinaia di copie, e mi pare di capire che possano essere numeri interessanti. 
I due esempi più recenti ci parlano di “Benedizione” di Haruf e di “Atti Osceni in luogo privato” di Missiroli come piccoli casi editoriali a casa nostra. Grandi vendite per due titoli non esattamente commerciali.

Cosa ti spinge ad andare avanti in questa attività?
Gogol & Company è una sorta di comunità. Mia figlia legge seduta in un angolo dello spazio, io e mia moglie e tantissimi amici lavoriamo sodo per far vivere il luogo che amiamo, leggiamo libri e beviamo birra. Siamo privilegiati e la mattina quando mi alzo ho voglia di lavorare e cominciare la mia giornata tra i libri.

Gogol and Company
via Savona 101


Milano

martedì 27 ottobre 2015

AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE - FRAMMENTI (4)

In una celebre canzone degli anni '80 l'artista multimediale Laurie Anderson cantava: "Language is a virus from outer space" (il linguaggio è un virus che arriva dallo spazio). La frase non è sua: è una citazione dal romanziere William S. Burroughs, uno dei padri della beat generation. Suona come un proclama visionario e fantascientifico, ma non è del tutto folle: ci sono ancora diversi punti oscuri nelle teorie del linguaggio e forse l’ipotesi del virus alieno potrebbe avere una sua remotissima plausibilità. 
Dal mio punto d’osservazione posso affermare che la stessa teoria si può applicare alla lettura: leggere è un virus, che si propaga per contagio. 
Se provate a fare due chiacchiere con gli insegnanti, soprattutto delle scuole primarie, vi racconteranno che la pratica della lettura è drammaticamente assente in molti alunni. I pochi che sono abituati provengono da famiglie con genitori di grado culturale elevato, che hanno educato i propri figli alla lettura. Del resto è difficile immaginare che un bambino venga spontaneamente attratto dai libri se non ha mai visto i propri genitori prenderne in mano uno. 
Io so perfettamente di aver cominciato a leggere per pure ragioni imitative: vedevo i miei genitori farlo e ne ero invidioso. Non provengo da una famiglia agiata. Sia mio padre che mia madre hanno un'estrazione molto proletaria. Nessuno dei due ha proseguito gli studi dopo le scuole medie, che ai loro tempi venivano denominate "scuole di avviamento professionale", già alludendo nell'intestazione al loro ruolo di passaggio tra l’istruzione dell’obbligo e l’inserimento nel mondo del lavoro. Non poter proseguire gli studi ha rappresentato una frustrazione enorme, per mio padre in particolare. Si trattava di un'ingiustizia sociale che lui percepiva come ancora più intollerabile considerando che al paese l'unico ad aver potuto usufruire di un'educazione superiore della sua generazione era il figlio di un medico locale, il solo che ne avesse i mezzi finanziari. “Ed era il più stupido di tutti noi", non può fare a meno di ripetere ancora oggi quando tocca l’argomento.
Malgrado la scarsa istruzione (o forse proprio per questa bruciante assenza di) i miei genitori hanno da sempre mostrato una grande passione per la lettura, che hanno portato avanti secondo percorsi individuali: mia madre dedicandosi alla narrativa, mio padre alla saggistica storica. 
Ricordo con assoluta precisione quando da bambino sedevo accanto a loro sul divano sfogliando il mio giornaletto a fumetti mentre loro erano immersi nella lettura di qualche volume. Capivo che stavamo compiendo lo stesso gesto, ma che la differenza stava nell’oggetto: io ancora non ero pronto per passare a quei tomi fitti di pagine e senza figura alcuna. Anelavo il momento in cui sarei passato al loro livello. 
A quel punto il virus della lettura mi aveva già contagiato. Mi era bastato avere dei lettori per casa.

Ho avuto conferma che la lettura fosse un virus diversi anni dopo, quando sono stato assunto nel mio primo posto di lavoro, come assistente copywriter in una grossa agenzia pubblicitaria milanese.
Ogni giorno arrivavo in ufficio con un libro sottobraccio. E i volumi variavano continuamente, perché sono sempre stato un lettore vorace e veloce. La sola presenza di un testo in mano era sufficiente a creare una serie di reazioni concrete. Quasi immancabilmente in ascensore i colleghi, notando il volume in mano, mi chiedevano che libro fosse, di cosa parlasse, se ne consigliassi la lettura anche a loro. Mi trovavo già in un ambiente creativo e stimolante, i miei colleghi erano persone attente alla cultura, alla musica, al cinema (non poteva essere altrimenti, lavorando nell’ambito della comunicazione), anche loro erano lettori, ma forse non altrettanto entusiasti: vedere la velocità con cui divoravo un romanzo dopo l’altro ha stimolato il loro appetito.
La mia collega di scrivania me l'ha proprio dichiarato a chiare lettere: - Vedere tutti i libri che leggi mi ha fatto invidia -. Era una lettrice in latenza: le ho fatto tornare la passione per la lettura solo esibendo dei volumi. 
A volte si veniva a creare una sorta di spontaneo club del libro: più persone si trovavano a leggere lo stesso romanzo in contemporanea quindi ci capitava di commentarlo alla macchinetta del caffè o in pausa pranzo. La possibilità di condividere pareri, di creare discussioni rendeva la lettura ancora più divertente. 
L’aspetto interessante della faccenda è che non ho mai avuto intenzione di fare proselitismo: non volevo convertire nessuno, non ero mai io a proporre. Ero portatore del virus della lettura: si propagava per la mia presenza.

Nel corso del tempo ho imparato a riconoscere questa costante: la gente mi sa (e mi vede) legato al mondo dei libri, quindi mi prende a riferimento. Mi chiede consigli per le proprie letture, per i libri da regalare ai compleanni, per i titoli da portarsi in vacanza. Può succedermi nei posti di lavoro, con i nuovi gruppi di amici o (più di recente) sui social. Il mio entusiasmo per la lettura travalica e si propaga tutto intorno, molto spesso senza che io ne sia consapevole.

Sono convinto che ciascuno di noi sia un formidabile strumento di diffusione. È una vita che ne ho conferma. 


lunedì 12 ottobre 2015

AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE - FRAMMENTI (3)

Per me leggere a volte coincide con lavorare. Sono (e sono stato) consulente di diverse case editrici, quasi sempre in qualità di talent-scout: segnalo i romanzi inediti di autori esordienti che colpiscono la mia attenzione. In genere si tratta di giovani scrittori coi quali entro in contatto per il lavoro che porto avanti autonomamente per la mia rivista ‘tina.
La modalità con la quale leggo gli inediti è molto diversa da quella che applico per le letture personali. Con un esordiente divento un professionista: verifico che l’attacco del romanzo sia convincente, che non ci siano errori di ortografia o grammatica, che i dialoghi siano realistici, che le descrizioni siano funzionali al testo, che la prosa sia fluida, e così via. Con un romanzo pubblicato invece mi abbandono alla lettura perché sono consapevole che qualcun altro abbia già fatto questo lavoro al posto mio. Ci sono già state discussioni, revisioni, correzioni di bozze. Il libro è pronto per essere consumato. C’è una notevole differenza. 
Spesso la gente non lo capisce. A volte mi consegnano un dattiloscritto dicendo cose tipo: “Tanto è breve, lo leggi in tre ore”, equiparando di fatto il ritmo di lettura di un libro qualsiasi al loro inedito, mentre per me non è, e non potrà mai essere, lo stesso. Con un’ingenuità sconfortante mettono sullo stesso piano una lettura di piacere con una di valutazione. In verità penso sia più sensato paragonare un inedito a un testo d’esame: mentre lo leggo devo segnarmi degli appunti, segnalare gli eventuali errori, formarmi un giudizio, motivarlo, più o meno come quando all’università si stava settimane su un testo, rileggendolo, sottolineandolo, per poi essere pronti al momento dell’interrogazione. 
Va anche detto che spesso non arrivo neppure a questo stadio impegnativo del lavoro. Ormai ho sviluppato una sorta di sensibilità istintiva: mi bastano poche righe per sapere se il testo mi convince o meno. Talvolta la repulsione è immediata: refusi nell’incipit, assenza totale di stile, banalità di contenuti, un tono forzatamente letterario... sono tutti elementi che accendono un immediato campanello d’allarme. Capisco che non è di qualità sufficiente e passo oltre. Il che avviene almeno nella metà dei casi del materiale che ricevo. (Il livello standard è bassissimo, chi non fa questo lavoro non ci crede mai, ma è tristemente vero).
Il caso peggiore, che purtroppo non è raro, è quando mi trovo a che fare con testi scritti in maniera corretta, magari con un buon attacco, una lingua scorrevole, un’idea di storia, ma che nel corso della lettura si rivelano di scarso interesse. Compitini ben svolti che non dicono niente. In quel caso è molto più difficile sia rigettare il testo, che motivarne il rifiuto. Capisci l’impegno e la serietà che stanno dietro il lavoro, ma purtroppo non sono sufficienti. Dover dire a qualcuno che non ha talento non è semplice, ma ogni tanto va fatto. Quando qualcuno mi chiede “Dimmi sinceramente cosa ne pensi” non posso fare a meno di prestare fede all’avverbio contenuto nella richiesta. Mi sembra la cosa più onesta da fare. 

Resta l’eccezione miracolosa del dattiloscritto che supera tutte queste fasi e riesce a conquistarmi. In quel caso il segnale più evidente della sua forza sta proprio nella modalità di lettura che applico: quando mi rendo conto che ho voglia di proseguire quel testo anche la sera prima di dormire, o di portarmelo dietro in metro la mattina, o di riprenderlo durante una pausa, in sintesi quando capisco che la barriera netta fra la lettura di piacere e quella professionale ha assunto contorni più fragili e che quello che ho fra le mani (che necessita  interventi di editing, revisioni, limature) è già comunque un libro vero.


venerdì 9 ottobre 2015

AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE - FRAMMENTI (2)

Mi capita quasi sempre quando vado ospite a casa di qualcuno che ha molti libri di invidiare la sua biblioteca. In un primo momento provo una sensazione di serenità (l’essere circondato da tanti libri mi rassicura come il valium), poi però scatta la tentazione di spulciare fra i volumi, prenderne in mano qualcuno, leggere righe a caso. Mi sembra che le case degli altri siano piene di libri che dovrei avere. Non importa quanti ne conservi io a casa, e non faccio alcuna comparazione diretta (la tua biblioteca è meglio della mia), solo che vedere sugli scaffali dei libri acquistati (quindi filtrati dalla sensibilità del proprietario, che quei volumi li ha scelti, comprati, portati a casa e letti) improvvisamente attribuisce a quei testi un nuovo valore. Mi sembrano importanti, necessari. Perché li ho ignorati finora? Mi scopro fare liste mentali per acquisti futuri, a volte arrivo a segnarmeli su un quadernino o sul cellulare. Mi dico, domani prima di ripartire vado in libreria e li compro. 
Talvolta lo faccio sul serio, compro quei libri che ho solo sfogliato la sera prima. In altri casi la sensazione si rivela legata al momento: il giorno seguente, lasciata la casa, salutati gli amici, tornato alla mia vita regolare, ho perso parte di quell’impeto. Quei libri non mi sembrano più così necessari, prevale la parte razionale di me, che mi ricorda le decine di volumi che stazionano sui miei scaffali in attesa di essere letti, senza che sia il caso di aggiungerne altri.  

Il punto non è questo. Non importa in fondo se quei libri li compro o no. La cosa fondamentale mi sembra invece la relazione che scaturisce: entrando in contatto con quelle biblioteche è come se i libri mi parlassero e io sia chiamato comunque a rispondere. Ci siamo parlati. 


mercoledì 7 ottobre 2015

LA PAROLA AI LIBRAI: 12 - BEATRICE DORIGO (TORINO)



Cosa ti ha spinto ad aprire una libreria?
Una buona dose di incoscienza senza dubbio! Credo fosse il mio sogno di bambina, alimentato nel corso degli anni da una famigerata formazione umanistica e il desiderio di passare la mia vita fra i libri, che sono forse l’unica costante che ho sempre avuto.

Come pensi sia cambiato il lavoro del libraio negli ultimi 10 anni?
Da un lato è più facile in tanti risvolti pratici: grazie a Google puoi identificare i libri che ti vengono richiesti da clienti che hanno pochissime informazioni (tipo: ne hanno parlato a Radio Tre la settimana scorsa, parla di un bambino, l’autore è uno psichiatra, forse ha la copertina blu), i programmi gestionali dei magazzini ti consentono di vedere in tempo reale e con un margine d’errore quasi nullo la giacenza del libro, grazie ai social hai più opportunità di dialogo con i clienti. Dall’altra, devi essere sempre più brava ad entrare realmente in contatto con le persone, a spingerle a fidarsi di te e della tua competenza. Devi dare ai lettori un motivo per scegliere te e la tua libreria anziché la grande distribuzione. Devi aggiornarti molto, studiare, organizzare eventi interessanti: comunicare bene chi sei, che cosa fai, e per quali motivi io, lettore, devo uscire di casa e venire a trovare proprio te.

So che è impossibile, ma se dovessi identificare un tuo cliente standard più o meno come lo descriveresti?
Buoni lettori, sia maschi che femmine, mediamente tra i 30 e i 60 anni, che sanno cosa vogliono ma sono disposti ad ascoltare i tuoi consigli, e che curiosano volentieri fra le novità.

Qual è la soddisfazione maggiore che ti da il tuo lavoro?
Potermi avviluppare nella coperta e leggere anziché fare le pulizie di casa perché “È per lavoro”! Ma anche il momento magico in cui qualcuno torna in negozio e ti dice che il libro che hai consigliato era bellissimo: mettersi a parlare dei personaggi e delle situazioni come se fossero vecchi amici in comune. 

Cos’è che ti fa davvero cascare le braccia?
Chi si lamenta della chiusura delle librerie indipendenti con toni da “O tempora, o mores!”, ma poi non ci ha mai comprato un libro. E anche chi fa acquisti solo online e poi si indigna se le librerie non sono disponibili per fare presentazioni dei libri che ha scritto. 

La cosa più assurda che ti ha chiesto un cliente?
Un bastone per le tende. L’ho guardato e gli ho detto “Forse ha sbagliato negozio, questa è una libreria”, e lui, impassibile, mi ha risposto “Ah, e quindi non ce l’avete?”.

Il ricordo più bello della tua esperienza da libraio?
Aver consigliato un libro per una ragazzina che non leggeva niente la cui mamma, lettrice famelica, era disperata. Dopo quel consiglio, la ragazzina ha cominciato a venire in libreria quasi una volta alla settimana, si è appassionata ai libri, ha cambiato approccio verso la lettura. Mi piace pensare di averla aiutata, anche se in maniera indiretta, a “sbloccare” una grande passione.

Pensi che la presenza della tua libreria apporti un miglioramento al tuo quartiere/ alla tua città? Perché?
Le librerie indipendenti di solito hanno un legame molto forte col territorio, e la Gang del Pensiero non fa eccezione. Credo che le librerie siano importanti perché danno al quartiere e alla città un legame molto pratico, molto stretto con la cultura, che, se rimane idea astratta, non serve a nessuno. È uno spazio in cui i genitori e i figli scelgono insieme le storie da leggere, in cui puoi incontrare di persona un autore che ti ha tenuto compagnia con i suoi personaggi, in cui puoi semplicemente rilassarti e perderti per dieci minuti in altri mondi. Questa primavera abbiamo proposto ai nostri clienti di venire a leggere in vetrina per mezz’ora: e tanti di loro ci hanno ringraziati, perché hanno colto l’occasione per rubare del tempo alle incombenze quotidiane e ritagliarsi uno spazio solo per sé. Questo per me è un fatto emblematico di quello che la libreria dovrebbe rappresentare nel territorio. E poi le librerie sono belle: anche questo è qualcosa che si riflette in positivo sulla città!

Cosa può dare in più una libreria indipendente che i negozi delle grandi catene non possono dare?
La libreria indipendente è più personale, assomiglia a chi la crea. Penso che ci siano ottimi librai anche all’interno delle librerie di catena, ma spesso non godono di un ampio margine d’azione. Nella vetrina della libreria indipendente puoi mettere chi vuoi, puoi dare spazio ai piccoli, scegliere titolo per titolo, costruirti un’identità precisa. Puoi scegliere di premiare un libro un po’ sfigato ma che secondo te merita. Fai già una scrematura, anche fra i titoloni di punta che “devi” avere. E di solito, anche per questioni numeriche, riconosci i tuoi clienti, ti ricordi i loro gusti, chiedi notizie dei nipoti, ti prendi il tempo per farci quattro chiacchiere, perché ognuno di loro è – davvero – importante. Credo che le librerie indipendenti siano adatte alle persone curiose, a quelle che amano il contatto umano, e che vogliono scegliere un libraio un po’ come scelgono un amico. Poi secondo me chi ama leggere compra libri dappertutto, perché non sa resistere.

Ti capita di contribuire, nel tuo piccolo, al successo di qualche libro?
Dal 2008 a oggi ho venduto un sacco di copie de “Il Vangelo Secondo Biff”, ma non so se Christopher Moore l’ha mai saputo!

Cosa ti spinge ad andare avanti in questa attività?
Per me è il lavoro più bello del mondo, e forse anche l’unico che so fare davvero bene (spero, in realtà me lo sto dicendo da sola, quindi non so se vale). Non so se è destino che le librerie prima o poi scompaiano, ma spero di no, e più da lettrice che da libraia. È che mi piacciono le persone. E forse i libri sono una scusa per arrivare al cuore delle persone.


LaGang Del Pensiero 
Corso B. Telesio 99

Torino

martedì 6 ottobre 2015

LA PAROLA AI LIBRAI: 11 - EMILIANO LONGOBARDI (SASSARI)


Cosa ti ha spinto ad aprire una libreria?
Ci lavoro ininterrottamente dal 1991, ma in realtà la mia libreria è stata aperta da altri e io ho iniziato a lavorarci come commesso stagionale durante lo scolastico, l'anno stesso in cui mi sono diplomato. Ci lavorava come dipendente anche mia mamma e due anni dopo la prese in gestione mio padre. Prima che mio padre morisse la gestione è passata a me e ho acquistato definitivamente l'attività nel 2005. 

Come pensi sia cambiato il lavoro del libraio negli ultimi 10 anni?
In maniera radicale. Dieci anni fa lo spauracchio erano le grandi superfici e l'incapacità/miopia dei librai riguardo le strategie da adottare per far fronte alle criticità del settore, oltre alla colpevole refrattarietà a ragionare in termini di categoria. Oggi sono le grandi superfici e i grandi store online, oltre al forse tardivo tentativo di ragionare in termini di categoria per affrontare le criticità del settore. Per fortuna, in Sardegna e a Sassari in particolare, abbiamo cominciato a muoverci un po' prima e gli sforzi - per quanto ancora un po' sproporzionati - stanno cominciando a dare qualche buono e ottimo risultato. Mi riferisco in particolare alla collaborazione fattiva che si è instaurata fra quasi tutti i colleghi della mia città, alla volontà concreta di operare su scala regionale con LiSa - Librai Sardi in rete, la prima rete culturale a livello nazionale, ma anche alla positiva esperienza di collaborazione con Lìberos, che riunisce tutti gli attori della filiera del libro (e non solo) e a tutte le forme più o meno strutturate di condivisione di un percorso.

So che è impossibile, ma se dovessi identificare un tuo cliente standard più o meno come lo descriveresti?
L'unica caratteristica standard è l'età mediamente molto giovane. E questo non per smarcarmi dall'incombenza di rispondere, ma perché un esercizio aperto al pubblico - di fatto - non seleziona (né dovrebbe) la propria clientela. Mi piacerebbe che entrasse in libreria solo un certo tipo di cliente? A volte sì, ma poi mi rendo conto che è una cazzata che nasconde goffamente il desiderio inconscio e scemo di lavorare il meno possibile: clienti che sanno quello che vogliono o che accettano qualsiasi consiglio, senza problemi economici, disposti ad aspettare senza problemi se il libro è da ordinare e che non acquistano su Amazon. 

Qual è la soddisfazione maggiore che ti da il tuo lavoro?
Anni fa veniva in libreria un ragazzino ai primi anni delle superiori. Com'era giusto per la sua età, leggeva fumetti parecchio disimpegnati, molti dei quali obiettivamente di cacca. Col tempo, ho provato a suggerirgli dei fumetti in alternativa senza voler stravolgere i suoi gusti, ma solo accompagnarli. Piano piano ho poi provato a proporgli qualche eccezione anche drastica. A volte i miei suggerimenti andavano a buon fine, altre volte - per fortuna pochissime - no. Nel volgere di un paio d'anni le sue letture si sono - con suo piacere - modificate enormemente e per me già quella è stata una bella soddisfazione, ma quando qualche anno dopo che ci eravamo persi di vista - nel frattempo si era trasferito a studiare a Milano - è tornato a farmi visita e mi ha confessato "tu mi hai cambiato la vita"... beh, ti lascio immaginare lo smarrimento e scombussolamento emotivo che può avermi regalato una consapevolezza del genere. Immagino che questo possa contribuire a rispondere alla tua domanda :)

Cos’è che ti fa davvero cascare le braccia?
L'ottusità, la non disponibilità ad ascoltare in combo con la propensione a sovrastare l'altro. E no, non mi sto riferendo ad atteggiamenti genericamente umani, ma alla loro declinazione nel mio ambiente lavorativo e che possono animare tanto chi ho davanti dall'altra parte del bancone quanto chi - come me - fa parte della filiera del libro, siano essi rappresentanti, distributori, editori o - in alcuni casi - anche autori.

La cosa più assurda che ti ha chiesto un cliente?
In quasi venticinque anni dietro al bancone le richieste assurde riempirebbero tomi su tomi. Evito per principio di sottolineare strafalcioni perché non amo l'ironia sull'ignoranza, ma - riallacciandomi in parte alla domanda precedente - trovo letteralmente assurdo dover risolvere problemi che non ho causato io, mi impermalosisce e incarognisce non poco, soprattutto quando dall'altra parte riscontro il totale disinteresse a comprendere la questione. Mi riferisco in particolare a quando un insegnante, pur non potendolo fare, a settembre cambia l'adozione del testo scolastico e - di fatto - mette cliente e libraio uno contro l'altro, quando invece il danno - oltre che un illecito - l'ha commesso lui. 

Il ricordo più bello della tua esperienza da libraio?
Il primo giorno in libreria, il primo giorno in cui mi sono sentito un libraio (dopo essermi sentito per lungo tempo solo uno che lavorava in libreria), il giorno della prima presentazione, ogni giorno in cui qualcuno torna perché si fida di ciò che consiglio - siano romanzi o fumetti - a prescindere dal fatto che quel romanzo o fumetto gli sia piaciuto. E tanti altri che tengo fuori soprattutto per pudore.

Pensi che la presenza della tua libreria apporti un miglioramento al tuo quartiere/ alla tua città? Perché?
Sì. Perché sono convinto che - pur commettendo ogni giorno errori in discreta quantità - so fare il mio lavoro e il mio lavoro - per come lo intendo io - serve non solo a sostentarmi, ma anche a migliorare il mio quartiere e la mia città.

Cosa può dare in più una libreria indipendente che i negozi delle grandi catene non possono dare?
Libreria indipendente e libreria di catena sono categorie commerciali, ma ciò che determina l'anima di quelle categoria è chi ci lavora, il libraio. Il libraio che sa fare il proprio mestiere dà in più a prescindere, non solo a se stesso, non solo alla propria attività, ma anche al contesto sociale e culturale in cui vive e si muove.

Ti capita di contribuire, nel tuo piccolo, al successo di qualche libro?
Successo non lo so, ma esistenza di buoni libri e buona diffusione degli stessi sì. Più di uno scrittore mi manda in manoscritto i propri lavori ed è sempre una straordinaria soddisfazione riscontrare l'utilità che possono avere le mie osservazioni e i miei suggerimenti, a prescindere dal fatto che siano recepiti. Così come è una grande soddisfazione individuare le tante vie che un libro può imboccare una volta che viene suggerito e consigliato a un cliente, avere la riprova che il passaparola continua a essere il modo più bello di far vivere un libro: una delle esperienze più solitarie e individuali che una persona possa vivere, la lettura, si fa socialità, rete, esperienza condivisa.

Cosa ti spinge ad andare avanti in questa attività?
Fare il libraio è ciò che ho scoperto essere ciò che voglio fare davvero insieme a scrivere fumetti, è ciò che ho imparato a fare e che vorrei continuare a imparare a fare soprattutto in un momento in cui pare che possa essere inutile farlo.


Libreria Azuni
Viale Mancini, 15 

Sassari

LA PAROLA AI LIBRAI: 10 - ELISA LUGLI (MODENA)


Cosa ti ha spinto ad aprire una libreria?
La passione in primis e il desiderio di creare un luogo personalizzato, con libri in italiano ma anche in lingua, con tavolini per sedersi e rilassarsi e dove ci si possa confrontare, parlare, imparare le lingue e bersi un tè. 

Come pensi sia cambiato il lavoro del libraio negli ultimi 10 anni?
Essendo libraia da un anno e mezzo, non ho termini di paragone, ma confrontandomi con i colleghi mi rendo sempre più conto di come sia cambiato questo lavoro oggi. Sempre meno “vita” del libro sullo scaffale, regole di distribuzione più rigide, e-book che hanno rubato una fetta di mercato al cartaceo, insomma più fatica per ottenere i risultati.

So che è impossibile, ma se dovessi identificare un tuo cliente standard più o meno come lo descriveresti? 
Motivato e curioso.

Qual è la soddisfazione maggiore che ti da il tuo lavoro?
“ Il libro che mi hai consigliato mi è piaciuto tantissimo”, “ Al mio bimbo fa impazzire  il libro che ho preso qui!”, “Mi hanno regalato un buono da spendere qui ma ho paura di sforare!”

Cos’è che ti fa davvero cascare le braccia?
Quando davanti alla vetrina i bimbi vedono i libri e chiedono “Possiamo entrare a vedere i libri?” e i genitori rispondono, seccati: “No, abbiamo fretta!” oppure “No, hai già i giochi a casa”. Ecco, come tarpare le ali a un lettore in erba! 

La cosa più assurda che ti ha chiesto un cliente?
“Se le ordino un e-book, poi quando arriva mi può fare il pacco regalo?”

Il ricordo più bello della tua esperienza da libraio?
Uno è impossibile. Ne ho tanti: il giorno dell'inaugurazione, il primo corso che abbiamo attivato con il massimo di iscritti, i complimenti degli autori che sono venuti a presentare i loro libri, ecc.

Pensi che la presenza della tua libreria apporti un miglioramento al tuo quartiere/ alla tua città? Perché?
Per le motivazioni dette nella risposta alla prima domanda. A Modena un luogo che non sia solo di “vendita” di libri ma anche di apprendimento delle lingue e che offre un ambiente in cui stare seduti e rilassarsi mancava.

Cosa può dare in più una libreria indipendente che i negozi delle grandi catene non possono dare?
Il consiglio di lettura, le chiacchiere e il confronto con i clienti e i lettori, la disponibilità ad andare incontro alle esigenze dei clienti, insomma la stessa cosa che differenzia la “bottega” da megastore!

Ti capita di contribuire, nel tuo piccolo, al successo di qualche libro?
Certo! I libri che mi sono piaciuti di più sono i primi che consiglio ai miei clienti!

Cosa ti spinge ad andare avanti in questa attività?
L'entusiasmo, la passione per il mio lavoro, la voglia di far crescere e migliorare sempre di più la mia libreria.

Emily Bookshop
Via Fonte d'Abisso, 9/11 
Modena