martedì 10 gennaio 2017

UNA LETTURA NON COME TANTE

Spesso in questo blog ho recensito libri, ma stavolta non voglio raccomandare un romanzo quanto raccontare un’esperienza di lettura, perché a volte leggere non è un piacere, un intrattenimento o uno strumento di approfondimento, ma è qualcosa di più complesso e completo, che supera (e integra) questi diversi aspetti.
L’esperienza è quella che ho vissuto affrontando “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara (pubblicato da Sellerio con una magnifica traduzione di Luca Briasco). 
Cominciamo dalla mole: il libro ha circa 1100 pagine. So che ci sono persone che amano particolarmente romanzi di ampie dimensioni, amano l’idea di “perdersi” dentro un libro. Io non sono fra queste. Quando un tomo è voluminoso tendo a metterlo in discussione: un libro di cinquecento pagine richiede un tempo che potrei dedicare a leggerne altri due o tre più brevi, quindi pondero molto accuratamente se ne valga la pena, e sono pronto ad abbandonarlo con maggiore rapidità se non mi convince. Figuriamoci quanto possa essere categorico con uno che supera le mille.  
Di questo libro avevo sentito parlare più volte in alcuni blog letterari americani che seguo e mi aveva suscitato una certo interesse, ma non avevo idea che sarebbe stato tradotto in italiano finché non l’ho trovato esposto fra le novità in una libreria. Sono state proprio le sue notevole dimensioni a farmelo notare e anche a fungere da deterrente. L’ho sfogliato e poi riappoggiato. Troppo, troppo lungo, mi sono detto. Ma il germe della curiosità già era in circolo. Nei giorni seguenti ho cominciato a notare riferimenti al libro sui social e nei giornali, ma ad aiutarmi a superare in maniera definitiva le mie resistenze sono stati i giudizi entusiastici di alcuni amici scrittori (Federica Manzon e Giorgio Fontana avete delle responsabilità in questo).  
Una mattina, complice un viaggio verso Roma, in una libreria della stazione l’ho comprato e l’ho iniziato subito in treno. Da lì non mi sono più fermato. 
Di “Una vita come tante” (titolo paradossale, non c’è nulla di comune nelle vite di cui parla il libro, soprattutto in quella del protagonista) è magistrale l’andamento, il percorso che l’autrice ha tracciato per il lettore, calibrando in maniera chirurgica il tipo di emozioni e coinvolgimento in grado di creare. Hanya Yanagihara mi ha letteralmente rapito e condotto dove voleva lei, talvolta contro la mia volontà. Bravissima. Implacabile. 
Cercherò ora di spiegar nel dettaglio come è avvenuto con l’impegno di non fare spoiler, se non sulla struttura del testo e anticipando quelle minime notizie sulla trama che già si trovano nelle varie recensioni che circolano.
Il romanzo inizia come la storia di quattro amici nella New York contemporanea. Nelle prime 150/200 pagine l’atmosfera e il tono sono dei tipici romanzi nordamericani contemporanei, la lettura è piacevole, la prosa dell’autrice è ricca ed elegante, anche se non particolarmente originale. Sino a qui sembra solo un bel libro. 
A questo punto, quando le personalità dei quattro sono bene delineate e il rapporto fra loro assodato agli occhi del lettore, ecco che il focus del romanzo si sposta progressivamente verso uno dei personaggi. Gli altri sono e restano presenti per il resto del volume, ma solo adesso il lettore comprende chi sia il vero protagonista, ed è il più fragile e complesso fra i quattro, quello della cui infanzia e giovinezza conosciamo meno, anzi di cui conosciamo poco o nulla. Il ritratto che ne esce è estremamente affascinante, un personaggio misterioso, tormentato, ma  che induce, tanto negli amici quanto nel lettore, un istinto di protezione e di grande affetto. 
Ci avviciniamo al centro del volume, la lettura si fa sempre più appassionante, difficile abbandonare il testo. A livello personale, mi accorgevo durante il giorno che il pensiero ogni tanto tornava ai personaggi del romanzo, che pregustavo con piacere l’idea di tornare a casa e potermi immergere di nuovo in quel mondo, fra quegli amici. Ogni sera volevo andare avanti, ancora dieci pagine poi spengo, ancora cinque e basta, giuro. 
Ed è a qui che Yanagihara, con una scelta sapiente e per certi versi perversa, sferza al lettore il colpo più duro. Tutte le domande che ci siamo posti sull’infanzia difficile del protagonista, tutti i dubbi, ci vengono svelati. E sono racconti terribili, di una crudeltà, di una violenza tale da lasciare senza fiato. Ora al piacere della lettura si è sostituito il dolore della lettura. Siamo giunti a un punto tale della storia che è impossibile interrompersi (ci siamo immersi fino al collo, non possiamo mollare qui, dobbiamo tenere duro e cercare di guadare questo fiume di sensazioni, dobbiamo trovare la forza di arrivare dall’altra parte, sperare di farcela), allo stesso tempo abbiamo la necessità di calibrare la sofferenza. 
Ci sono stati giorni in cui mi è servito del coraggio per riprendere la lettura. Per stasera basta, mi dicevo, di più non riesco. Chiudevo il volume e magari prendevo qualcosa di più leggero, una rivista, la biografia di un cantante pop lasciata a metà, qualcosa che mi distraesse e mi conciliasse il sonno, alleviandomi dal peso di quelle brutali confessioni. 
Dopo questa violenta e dettagliata parentesi l’autrice ci concede di nuovo respiro e dedica un’ampia fetta di narrazione alla maturità del protagonista. Il contesto è finalmente sereno, gli incubi del passato non sono e non possono essere sepolti ma l’amore e la protezione dell’ambiente familiare possono permettere un tentativo di assestamento. Il presente non fa più paura, una parvenza di felicità sembra possibile. 
Il lettore tuttavia non può scrollarsi di dosso il trauma di ciò che è venuto a sapere sul conto del protagonista. Procede con cautela, temendo che nuove ferite siano in agguato. Ed è con questo stato d’animo di sottile apprensione che si giunge al finale del volume, sul quale chiaramente non dirò nulla.
Dopo averlo terminato ho subito cercato in rete notizie su Hanya Yanagihara e ho scoperto che è una reazione comune: in più di una recensione sulle riviste letterarie on line americane gli stessi critici confessavano di essere divorati dalla curiosità verso l’autrice di un’opera monumentale e anomala come questa. In realtà, non c’è molto da sapere. La Yanagihara, statunitense di origine hawaiane, è una giornalista di viaggi, ha già un romanzo alle spalle e ha scritto questo secondo nel giro di soli 18 mesi, lavorandoci la sera e nei weekend in quello che lei stessa ha definito “uno stato quasi febbrile”. Il suo modello erano i romanzi classici ottocenteschi, dei quali il testo riprende le dimensioni e il respiro. L’unica osservazione degna di nota riguarda il rapporto con il suo editor, che ha cercato più di una volta di spingerla a ridurre o a perlomeno a rendere meno cruente le scene di violenza, ma su questo la scrittrice è stata irremovibile perché le riteneva essenziali.  
Ammetto di non aver mai letto nulla prima di altrettanto efficace nel rendere l’orrore fisico e psicologico degli abusi sui minori, nel mostrare l’ineluttabilità delle ferite emotive che ne conseguono.  
A causa della sua mole (ha le dimensioni di un mattone e il peso supera il chilo), “Una vita come tante” rappresenta l’esempio ideale di romanzo da leggere in ebook, una soluzione infinitamente più maneggevole e pratica. Invece io ho preferito la concretezza delle pagine stampate: la fatica di portare con me in giro, in borsa, nello zaino, questo oggetto pesante era parte dell’impegno di questa lettura totalizzante e anomala, che mi ha richiesto sforzi, e rinunce, e impegno, e lunghe riflessioni.  

Ho trovato il romanzo notevole, sebbene non privo di difetti, ma con una narrazione di queste dimensioni i giudizi non possono che essere complessi e stratificati, anche estremamente soggetti, tuttavia non importa: “Una vita come tante” mi ha ricordato che leggere è un’azione che comporta aspetti mentali, fisici, emotivi, filosofici. Erano anni che non provavo un’esperienza di lettura simile. Fosse anche solo per questo non posso che essere molto grato a Hanya Yanagihara. Erano 1100 pagine. Non mi sono mai pentito, una singola volta, di averle affrontate.