Una situazione che ho visto ripetersi spesso: l’alunno del corso legge un suo racconto, io gli faccio notare che una determinata scena risulta confusa e poco credibile, lui ribatte con fierezza che le vicende che racconta sono accadute realmente e nel modo esatto in cui le ha riprodotte, io replico con candore che non me ne può importare di meno. Segue il consueto attimo di sbalordimento, lo sguardo attonito dello studente e l’immancabile, scandalizzata, domanda: - Cioè vuoi dirmi che in un testo autobiografico io dovrei raccontare il falso?!? -.
Non è questo il punto.
E’ la domanda stessa a essere sbagliata e fuori luogo: perché uno scrittore si occupa di narrativa, non di verità. Sono due concetti separati e, talvolta, persino distanti.
Un lettore in una storia cerca personaggi vividi, un intreccio coinvolgente, un linguaggio brillante. Cerca illuminazioni, spunti, stimoli, riflessioni, stupore, persino riflessi di sé. La verità la cerca altrove (nei reportage, nei saggi, nei quotidiani). Qualora la cercasse in un romanzo, vorrebbe comunque che questa fosse coerente e solida. Nella vita reale spesso non lo è. Ma appunto, un racconto, un romanzo, non sono la vita reale, per quanto possano prendervi ispirazione anche diretta: sono la vita reale filtrata attraverso lo sguardo di un narratore.
Il compito di chi racconta è quello di scegliere i materiali, organizzarli, dare loro una sequenza e una concatenazione, plasmarli fino a renderli una storia. Non a caso, narratori diversi posti di fronte allo stesso evento ne produrrebbero racconti profondamente diversi.
Una delle lezioni più illuminanti che abbia mai ricevuto è stata durante un corso universitario nel quale l’insegnante ci aveva chiesto di scrivere le istruzioni per preparare una tazza di caffè. Un compito che era parso a tutti noi insensato e sterile. Quando è stato il momento di leggere ad alta voce i nostri elaborati, le differenze si sono rivelate sbalorditive: per quanto si trattasse di gesti meccanici e quotidiani, comuni a ogni italiano, ciascuno di noi ne aveva fornito una descrizione diversa: la conservazione del caffè, la quantità di miscela, la temperatura dell’acqua... Ognuno aveva una propria abitudine, una personale ricetta.
Noi siamo questo: differenze.
Piccoli scarti soggettivi che rendono la nostra esperienza inesorabilmente unica.
Quando scriviamo una storia non importa quale sia la verità: conta solo la nostra verità, quella che scegliamo di raccontare e come scegliamo di farlo.
[E poi, dal macro al micro, nel dubbio specifico posto da un aspirante autore in un corso di scrittura: di quale verità stiamo parlando? Se mi racconti l’esilarante episodio di quella volta che tuo cugino è caduto nel fango, l’amica che passa e vi vede, la vergogna, le matte risate, chi concerne questa verità? Tu, tuo cugino e l’occasionale amica? I tuoi futuri lettori (centinaia, migliaia, auguriamoci milioni), non erano certo lì, non conoscono l’esatta sequenza degli eventi, non hanno motivo né di metterla in dubbio, né di contestarla, ma soprattutto, non importa: per loro, in questo momento, tu, tuo cugino e la tua amica siete personaggi in una storia. Tramite voi si aspetta di rivivere la comicità (o il dramma, o la tensione, o l’inquietudine, o) del momento. E’ questo che tu, autore, devi dargli. Non la verità.]
6 commenti:
mi piace perchè la verità, qualsiasi, presume coerenza e solidità. sopratutto siamo differenze o follie. non sicuramente regole! che ci accomunano.
grazie per questo post.
grazie per tutti i post, ma questo mi intriga molto, e so già che mi accompagnerà nelle mie pedalate di meditazione dei prossimi giorni :-)
t
niente di più vero :))
Sottoscrivo. E' come se faccio l'imitazione di mia zia ad un gruppo di sconosciuti: non riderebbero mica come il resto dei miei parenti.
Domanda :)
Poniamo che una tua amica sfigata grafomane si stia dedicando da circa sette anni a raccogliere aneddoti relativi ad episodi e conversazioni talmente assurdi che nemmeno l'espressione "ai confini della realtà" riesce a rendere l'idea. Ma che si tratti di episodi assolutamente reali, vissuti personalmente da lei e da altre persone nella sua stessa situazione. E che la chiave di lettura di questi episodi sia in realtà una questione sociologica di quelle che potrebbero far riflettere anche abbastanza seriamente (anche se la nostra potenziale autrice non si diverte per niente a sollevare le serie questioni sociologiche, se non è per riderci sopra).
Secondo te funziona meglio:
a) Mantenere un approccio neutrale alla faccenda, tipo "io sono Alice, stavo solo cercando un coniglio e invece ho avuto le seguenti conversazioni coi personaggi del Paese delle Meraviglie", oppure
b) Esporre (col rischio di cadere nella sociologia da salotto, ma anche e peggio, di dover citare delle fonti serie) la propria opinione su come dovrebbe funzionare in un mondo razionale la relazione tra domanda e offerta nel mercato dei conigli, citando gli aneddoti a supporto del fatto che in realtà viviamo nel Paese delle Meraviglie?
Oddio, detto cosi' non è chiarissimo, sarà che sono sette anni che mi ritrovo protagonista di episodi ai confini della realtà e non so più da che parte stanno i pazzi?
Baci,
Laura
Post e blog interessante.
Infilo nel reader, scoperto grazie ad un link sul blog di Eleonora C.C.
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