martedì 27 novembre 2012

5 COSE PER VERONICA

La scrittrice Veronica Tomassini mi ha chiesto un intervento per il suo blog nel quale fornire un consiglio per gli autori esordienti. Mi è venuto fuori un breve pentalogo (esiste la parola pentalogo?). Chi frequenta questo blog probabilmente mi ha già sentito parlare di queste cose. Tutti gli altri, trovano i miei suggerimenti in cinque punti qui.


sabato 24 novembre 2012

PREGHIERA INEDITA

Ogni tanto succedono queste cose incredibili, che salta fuori l'inedito di un autore superstar, dimenticato in qualche rivista letteraria di una sperduta università o nel classico scatolone di manoscritti. Questa volta la scoperta è assai significativa, perché lo scrittore in causa è nientemeno che Truman Capote e non si tratta neppure di un semplice racconto, ma di uno dei capitoli mancanti di "Preghiere esaudite", il suo ultimo romanzo, pubblicato postumo e incompleto (Capote aveva sempre dichiarato di averne scritto la versione integrale, ma alcuni capitoli risultavano, sinora, perduti). Il formidabile ritrovamento è stato fatto nell'archivio dei materiali dell'autore conservato presso la New York Public Library. 
Buon per noi, dunque, è tornato finalmente alla luce questo tassello mancante ed uscirà sul Vanity Fair americano di dicembre col titolo originale "Yachts and things". 
Nel frattempo però è possibile visionare on line qui la riproduzione fotografica del dattiloscritto (con le correzioni a mano). Quasi un modo per condividere l'esperienza del ritrovamento (anche piuttosto emozionante, devo ammettere). 

Ditemi grazie che ve lo segnalo.
Prego, non c'è di che. 



mercoledì 21 novembre 2012

NOI, I LETTORI


Ogni tanto capita di leggere libri che ci sembrano straordinari (alla lettera: perché escono dall’ordine stabilito delle cose e riescono a tracciare nuovi scenari). 
A me è successo con “Noi gli animali” di Justin Torres.

Di “Noi gli animali” non sapevo nulla. Mi ha colpito la copertina e la frase di Michael Cunningham che lo definiva un libro “che non assomiglia a nessun altro” (anni addietro, grazie a una citazione di Cunnigham avevo fatto un’altra, strepitosa scoperta, l’ “Autobiografia del rosso” di Anne Carson, quindi mi fido molto del suo gusto).

Sono tre le ragioni per cui lo considero una lettura importante. 
In primo luogo per la struttura: capitoli brevi e brevissimi, spesso autoconclusivi, dall’andamento quasi acronico (solo verso il finale il tempo si sposta in avanti, l’azione svela sviluppi futuri: per tre quarti del testo le azioni sembrano svolgersi in un eterno e contemporaneo passato). 

Molti, quasi tutti, i capitoli potrebbero essere estratti e letti come racconti, alcuni di una bellezza struggente. Ma non tutti possono vivere separati dagli altri. In questo la forma del romanzo è ibrida, e inclassificabile, e dunque personalissima. 

Poi, la lingua. Grazie anche all’ottima traduzione di Sergio Claudio Perroni, si capisce quanto questo libro si fondi sulla potenza della parola, su una lingua epica, che sembra nascondere epifanie in ogni riga. Alcuni esempi: 
“Il mistero di Dio è nel tre. Noi eravamo il mistero di Dio”
“Quando tornammo a casa da scuola, la cucina era tutta piena di papà”; 
“Bestemmiò me e Cristo, e le sue lacrime caddero, e io ebbi sette anni”. 

Infine, l’evoluzione narrativa: il romanzo è scritto quasi interamente alla prima persona plurale. Il “noi” si riferisce ai tre fratelli protagonisti, una sorta di monade all’interno della quale è difficile scorgere le identità individuali, i tre fratelli sembrano essere facce dello stesso organismo, un unico animale che deve affrontare il mondo e sopravvivergli. Solo nelle ultime pagine la monade si infrange: non c’è più un “noi” collettivo, compare una frattura insanabile fra un “io” e un “loro”. Il protagonista da plurale si fa singolare (ora, finalmente, scopriamo chi è dei tre) e la sua unica possibilità di sopravvivenza è trovare un nuovo nucleo dove inserirsi, dove diventare di nuovo “noi”. 

Ho letto che Justin Torres ha impiegato sei anni, all’apparenza un’eternità per un libro così snello (meno di 130 pagine). Ma la densità della scrittura è tale che non è difficile capire perché sia costato tanta fatica.

“Noi gli animali” è uno di quei regali che noi i lettori dovremmo farci ogni tanto, per farci travolgere dalla potenza. 


martedì 13 novembre 2012

CONFESSIONI DI UN IDIOTA


Quest’estate ho sfiorato un incidente terribile. Ero su un treno che da New York portava a Boston. Il vagone era affollatissimo e io viaggiavo con una di quelle ingombranti valigie da viaggio intercontinentale. Giunto al mio posto ho visto che lo spazio sopra i sedili era già occupato da altri bagagli. Mi sono spostato più indietro. Mentre provavo a infilare la valigia in un alloggiamento libero il treno si è rimesso in moto e ho perso l’equilibrio. La mia valigia pesante è caduta sul passeggero di sotto e solo in quel momento, con un terrore assoluto, mi sono reso conto che si trattava di una madre con un’infante al collo. La donna ha gridato, tutti i passeggeri negli immediati dintorni hanno emesso un - Oh! - di spavento, io avevo gli occhi sbarrati e il sangue gelato nelle vene. Tutto è durato pochi secondi. In realtà, la valigia ha toccato il sedile e/o la testa della ragazza, scivolando a terra, non gli è precipitata in grembo. In pratica non è successo quasi nulla, ma al momento era difficile da stabile cosa esattamente fosse accaduto e che conseguenze potesse aver avuto. 
Quando mi sono chinato per controllare il danno, lei era protesa a verificare che non fosse successo niente al piccolo. Accanto alla giovane madre c’era una signora matura (forse sua madre, la nonna dell’infante), che mi inceneriva con lo sguardo. La comprendevo perfettamente. Io ero al di là della mortificazione, non sapevo bene che cosa dire (cosa si dice in queste circostanze?), ripetevo un mantra di inutili Sorry, sorry, sorry mormorati. Ero lì col fiato sospeso, in attesa di capire se ci fossero dei danni, cercando di ricostruire mentalmente la meccanica dell’accaduto. Solo quando ha capito che il bambino non era stato sfiorato, la ragazza si è voltata verso di me. Io ho detto, testualmente: - Forgive me, I’m a fool -, mi perdoni, sono un idiota. Lei ha risposto che era solo un incidente, che non era colpa mia e che l’importante era che il bambino fosse illeso. Era di una gentilezza sbalorditiva. L’altra donna non condivideva affatto il suo tono, mi fissava con odio ancora più manifesto.
Sotto il biasimo generale dello sguardo dei passeggeri ho portato la valigia all’estremità del vagone e l’ho abbandonata lì (l’arma del delitto, avevo vergogna persino a maneggiarla). Sono tornato al mio posto in uno stato di shock, non tanto per l’incidente in sé, che si era risolto nel migliore dei modi, quando per l’ipotesi agghiacciante di quanto avrebbe potuto andare peggio. (Un bagaglio di venti chili che piove addosso a un neonato: non riuscivo a pensare a niente di più tremendo). Dopo una decina di minuti mi sono fatto forza e sono andato di nuovo a controllare la situazione. Il piccolo dormiva, la ragazza era sorridente, la nonna continuava a odiarmi, ma con meno intensità. Ho chiesto scusa un altro centinaio di volte. 
Per il resto del viaggio ho cercato di leggere, di ascoltare musica, di rilassarmi. Sono riuscito vagamente solo mezz’ora più tardi a capire le parole del romanzo che avevo spalancato di fronte. Il mio cervello non era in grado di registrare informazioni al di fuori dei sensi di colpa.
Durante una fermata intermedia le vittime della mia incuria sono scese e, con mia sorpresa, la ragazza è venuta a salutarmi e a rassicurarmi di nuovo. (Sconosciuta che sei scesa dalle parti di New Haven, che non sai leggere l’italiano e che mai capiterai su questo blog, sappi che questo tuo gesto non lo dimenticherò mai).   

Ecco, sentivo di dover fare pubblica ammenda. Ci ho messo qualche mese, però ora lo confesso, perché ogni tanto di notte ci ripenso ancora e non prendo sonno. Perché lo so bene che gli incidenti capitano a tutti, ma solo un cretino come me può sollevare un peso del genere senza accorgersi che lo sta facendo sopra la testa della creatura più fragile di un intero convoglio.