Durante lo scorso weekend ho fatto una delle esperienze più genuinamente milanesi degli ultimi tempi: sono andato da Johnny in Paolo Sarpi.
Da alcune settimane il mio iPhone mostrava preoccupanti segnali di insubordinazione: la tastiera smetteva improvvisamente di funzionare, per poi ripartire di colpo con una serie di vcfgjycuvtyò@@@%opuoòtzrxuò senza senso; il tasto centrale non rispondeva più, se non dopo insistite pressioni; la suoneria decideva autonomamente di quali sms segnalarmi l’arrivo, tacendone la maggior parte. (Whitney) Houston abbiamo un problema.
Come sempre in questi casi la mia filosofia è: ignora questi infausti segnali nell’attesa che tutto si sistemi da solo. Sarebbe interessante analizzare come mai questo atteggiamento non si sia mai rivelato efficace in tutta la mia esperienza terrena ma io continui a restarvi aggrappato tenacemente. Lasceremo tuttavia questo argomento per futuri approfondimenti. L’esito fallimentare della mia insensata filosofia postivista si è di nuovo dimostrato in tutta la sua lampante chiarezza sabato pomeriggio intorno alle 17.30 quando l’apparecchio ha cominciato a squillare e ho scoperto di non essere più in grado di rispondere: il touch-screen aveva perso del tutto la sensibilità e ogni mio tentativo di accedere alla chiamata (o di compiere qualunque altra operazione, inclusa quella di provare a spegnerlo) si rivelava nullo.
Dopo alcuni istanti di sobria e pacata analisi del fenomeno (“Cazzo, ma che sfiga, mi si rompe proprio di sabato sera, dove vado adesso, CAZZO, COSA FACCIO?, AIUTO, CAZZO CAZZO CAZZZZZZOOOOOO!”), mi è tornata in mente la formula magica che da settimane sentivo ripetere da amici e conoscenti. Ogni volta che mi capitava di avere problemi con lo smartphone in presenza di altri, c’era sempre qualcuno che suggeriva: “Portalo da Johnny”. Per i milanesi quello di Johnny il cinese è ormai un nome noto e familiare, come la Madonnina, i panzerotti di Luini o il bar della signora Lina, un elemento della mitologia cittadina che si tende a dare per acquisito con il resto degli abitanti. Il fatto che Johnny sia tutto fuorché un nome cinese non sembra aver mai turbato nessuno: è chiaro che si tratti di un nome d’arte, assurto ormai allo status di marchio. Infatti anch’io avevo sentito nominare svariate volte Johnny (Wired gli aveva addirittura dedicato un servizio, giusto per indicare il livello di stardom di cui stiamo parlando), ma sino a ora non avevo mai avuto bisogno dei suoi servizi, quindi ignoravo l’ubicazione precisa o gli orari di lavoro. Un’amica mi aveva dato il suo indirizzo via sms, ma appunto in questo momento anche quella informazione mi era irraggiungibile. Disperato, ho acceso il computer e ho provato a digitare su Google “Johnny Paolo Sarpi” (una chiave di ricerca che mi appariva di una vaghezza assurda quanto “Samantha Los Angeles”) e invece, con mio totale sbalordimento, a parte un hotel omonimo, le altre prime reference indicavano il negozio di riparazioni. Una riportava anche gli orari di servizio: “Oggi aperto fino alle 20.30”. Nessuna proposta erotica sussurrata in quel momento mi sarebbe parsa più eccitante di questa prospettiva: aperto fino alle 20.30 di sabato!
Mi sono infilato in metrò per fare il più velocemente possibile: dalla fermata di Moscova mi sono fatto a piedi il quarto d’ora che mi separava da via Giordano Bruno, sede della “D.T.M. riparazioni”, il cui logo ufficiale nell’insegna luminosa era sormontato dalla ben più chiara e riconoscibile indicazione “JOHNNY”.
Mettere piede nel negozio significa precipitare in una scena di Blade Runner con l’effetto 3d più stupefacente mai sperimentato, poiché il luogo è reale: uno stanzino rettangolare e profondo, i cui muri avrebbero un disperato bisogno di ritinteggiatura, con una serie di polverose vetrinette alle pareti che mostrano accessori di telefonia che paiono gettati lì più alla rinfusa che allo scopo di essere esposti. Del resto nessuno dei presenti ci getta neanche una distratta occhiata. L’attenzione di tutti è concentrata verso il bancone dove due cinesi (uno più giovane, sui 30 anni, e uno più maturo, sui 40, gradi di anzianità orientativi poiché l’attribuzione di età agli individui asiatici resta per noi occidentali una sorta di limite cognitivo insormontabile) si occupano con manifesta professionalità di accogliere le richieste dei presenti. Alle loro spalle si erge una distesa di reperti informatici in vari gradi di abbandono: monitor spenti, tastiere sventrate, cellulari impilati uno sull’altro, cavi elettrici, tablet coi vetri infranti, custodie di ogni dimensione, portatili in ricarica, hard disk esterni che lampeggiano insistenti. L’impressione che se ne ricava, va detto, non è affatto rassicurante. Più che un negozio sembra l’angolo di un magazzino, e del magazzino assomiglia allo stanzino degli scarti. Ma non facciamoci influenzare dalle apparenze.
Prima di me ci sono tre persone. Nell’attesa ne giungono altrettante alle mie spalle. Lo sguardo sul volto di ciascuno è: allucinato. Hanno tutti (me compreso, ovvio) l’espressione di chi sta affrontando il disastro: l’orlo dell’abisso sul quale siamo affacciati è troppo spaventoso per guardare in basso e l’unico appiglio al quale possiamo tendere, ansiosi, tremanti, spauriti, è rappresentato dai due orientali dietro il banco.
A un certo punto ho l’impressione che l’uomo immediatamente prima di me stia per mettersi a piangere: racconta che il telefono si è spento all’improvviso (“Si è bagnato” confesserà poco più tardi, vergognandosene, ma ammettendo finalmente l’orrida colpa) e al suo interno conserva ogni dato sensibile necessario per la sua attività di libero professionista (“Tutti i miei appuntamenti di lunedì!” aggiunge, con una nota di disperazione). Il cinese più maturo, che l’ha preso in carico, è del tutto indifferente al tenore emotivo della conversazione. Con un cacciavite microscopico apre il retro del suo Samsung, lo osserva da vicino con attenzione e al termine, come in un antico rito sciamanico, emette il suo verdetto: “Asciughiamo, faccio backup tutti i dati, sostituzione battelia, tolna tla una ora, ottanta eulo”. “Tra un’ora?” chiede l’uomo, incredulo. Il cinese annuisce. Per un secondo temo che l’uomo stia per prendergli la testa fra le mani e cominciare a limonarlo. Non lo fa, ma è quello che il suo sguardo lascia chiaramente trasparire: il sollievo infinito di chi vede di nuovo salva la propria vita e non sa come dimostrare l’esplosione di gratitudine che sgorga dal suo cuore. (L’amica che mi aveva fornito l’indirizzo di Johnny mi aveva anche confessato che nel suo caso si trattava di un portatile contenente il lavoro di un intero anno, e quando il cinese le aveva annunciato di essere in grado di ripararlo e recuperare i dati al costo di 180 euro, lei si era messa a urlare “Ma io te ne dò anche mille!”, facendo la figura di una pazza e vergognandosene molto nei giorni a venire).
Dopo il caso del telefono salvato dalle acque, il mio appare come ordinaria routine, solo più numerosi gli interventi: sostituzione batteria, tasto centrale, schermo e verifica dei collegamenti. Costo totale 130 euro, anche se l’operazione richiede un tempo maggiore. “Puoi venile domani mattina?”. Cioè, Johnny, o emissario di Johnny che tu sia, mi stai dicendo che siete aperti anche di domenica? Non formulo la domanda perché la risposta è già implicita nella sua proposta. Temevo di restare privo di cellulare per giorni e lo sarò solo per una notte. “Certo che posso”. Lui prende i miei dati e li trascrive su un adesivo che applica sul retro del mio apparecchio. Poi porta il mio telefono, insieme ad altri che si erano accumulati in questa manciata di minuti, in una stanza situata sopra il negozio. L’immagine inquietante che si forma nella mia mente di una camerata-lager con una schiera di cinesi ridotti a schiavitù e costretti a riparazioni digitali senza sosta, attuando un meccanismo di sfruttamento che permette agevolmente le aperture fino a tardi tutti i giorni della settimana senza interruzione, è subito cancellata dall’egoistica e occidentale soddisfazione al pensiero che domattina avrò di nuovo il mio apparecchio funzionante. Sfreccio leggiadro verso la cena che mi attende, con l’inedita e quasi eccitante consapevolezza di essere isolato nelle comunicazioni per circa quattordici ore.
La mattina seguente vado a ritirare l’apparecchio. Funziona tutto all’apparenza. Pago e torno a casa. Un paio d’ore dopo mi accorgo che persiste un problema grave: la parte destra del telefono è ancora priva di sensibilità touch-screen. La ricevuta che Johnny mi ha fornito reca la scritta “Certificato di garanzia Johnny”. Ne approfitto immediatamente e torno. Un altro cinese (stavolta più giovane e con una pronuncia italiana molto migliore, chiaramente di seconda generazione e forse, a giudicare dalla foto di Wired, proprio Johnny in persona) si scusa per l’inconveniente e mi chiede di ripassare più tardi. Quando mi ripresento il problema non è risolto: persiste tale e quale. Il ragazzo sembra seccato per questa mancanza di professionalità verso il cliente. “Aspetta qui” dice e va lui di persona a occuparsene, uscendo da una porta sul retro. Rientra poco dopo annunciando: “Sostituiamo un altro schermo, torna tra mezz’ora, ti assicuro che sarà a posto”. In effetti avviene proprio così. Al ritorno l’iPhone ha riguadagnato tutte le sue funzioni e non presenta più difficoltà di utilizzo.
Morale: il tutto mi è costato tre viaggi (abito dall’altra parte della città) e la perdita di una giornata intera fra una sostituzione e l’altra (durante un we in cui i normali negozi di riparazioni sono chiusi), ma alla fine Johnny mantiene fede al suo mito archetipo.
Adesso mando sms, navigo in rete e rispondo alla chiamate in scioltezza. E mi sento un pochino più milanese di prima.