domenica 22 dicembre 2013

GOTHIC LOLITA

Ieri sera, per puro caso, mi sono ritrovato in un locale dove era in corso una festa dark. Come appena sbarcati da una capsula del tempo attorno a me decine di individui con chiome laccate, rossetti sbavati, orecchini sul labbro, croci argentate al collo, anfibi, pantaloni di pelle nera o minigonne su calze a rete traforate che ballavano Cure, Sisters of Mercy e “Siberia” dei Diaframma. L’impatto è stato talmente potente che mi ha riportato alla mente un’esperienza che avevo quasi del tutto cancellato dalla mia memoria: intorno ai 16, 17 anni, mentre ero studente in un liceo di Pavia, ero entrato in contatto con due ragazze dark di Genova, la cui amicizia avrebbe influenzato molto i miei mesi a venire. Nel Paleozoico dei contatti social nel quale vivevamo, il nostro incontro virtuale era avvenuto tramite un annuncio pubblicato su una rivista di musica. Non ho idea di quale fosse la rivista, né se fossi stato io a mettere l’annuncio o avessi risposto al loro, fatto sta che abbiamo cominciato a scriverci (lettere, avete presente? fogli di carta con parole vergate a mano, inseriti in buste e spedite fisicamente), finché loro due - che si chiamavano Carla e Silvia, anche se Carla si firmava Karla - mi hanno proposto di raggiungerle un mercoledì pomeriggio per incontrarci di persona. Così, fuori da scuola, ho preso un Intercity e sono sceso a Genova Brignole, dove ad attendermi c’erano loro due in piena divisa dark insieme ad altri due o tre amici, compagni di look. Io non ero esattamente dark quanto loro nell’aspetto, niente croci o creste fucsia in testa (il che mi sarebbe stato oltremodo facile, avendo una madre parrucchiera), mi limitavo a portare camicie o dolcevita neri e ad ascoltare un certo tipo di musica sul mio walkman. Quello che Karla e Silvia non mi avevano annunciato per lettera era che l’incontro non si sarebbe limitato a quattro chiacchiere e una birra in un bar del quartiere, ma prevedeva un pomeriggio da trascorrere in una discoteca. Io mi accodai dunque alle mie due nuove amiche e mi lasciai trasportare. Del locale ricordo pochissimo, però alcuni fatti basilari li ho conservati: intanto che per essere un mercoledì pomeriggio di gente ce ne fosse abbastanza, che quasi tutti sembravano usciti da un video girato a Londra più che provenire dall’entroterra ligure e soprattutto che per la prima volta in vita mia adoravo la musica che il dj stava suonando. Quelle due o tre orette assurde, in una discoteca votata a celebrare l’oscuro mentre fuori c’era un sole splendente, mi piacquero così tanto che divennero un appuntamento fisso. Continuai ad andare a Genova, non proprio tutte le settimane, ma almeno una volta al mese, coltivando il rapporto con le mie cotonatissime amiche e i loro compagni d’avventura. Se non sbaglio loro due erano più grandi, già diciottenni, e in fatto di cultura musicale erano molto più aggiornate di me. Spesso mi passavano cassette con brani che io non mi limitavo ad ascoltare, ma studiavo proprio, come frammenti di un linguaggio che ancora non padroneggiavo completamente e che volevo assorbire il più in fretta possibile. Furono loro due che mi fecero scoprire canzoni mai sentite prima, come “Tanz Mussolini” dei DAF, “Bela Lugosi’s dead” dei Bauhaus o “Like an animal” dei Glove, il progetto parallelo di Robert Smith dei Cure. Quando mi davano i nastri li accompagnavano da brevi indicazioni a voce perché potessi capire cosa aspettarmi dall’ascolto. Ricordo che Karla una volta mi aveva consegnato una cassetta che comprendeva alcuni brani dei NewOrder e che Silvia si era dissociata dalla scelta. Quando le avevo chiesto perché li detestasse tanto lei mi diede una risposta così sprezzante che non l’ho mai dimenticata: “Perché Ian Curtis è morto e loro ci ballano sopra”. 
Col tempo ho smesso di andare a Genova e ho perso di vista le mie amiche dark. Non c’è stata alcuna rottura fra noi, semplicemente crescendo i contatti si sono affievoliti fino a spegnersi del tutto. Mi chiedo ora dove siano, che vita facciano, come ricordano quel periodo laccato. 
Ieri sera, ripensando al me stesso adolescente che da solo andava a Genova pur di trovarsi con altra gente coi suoi stessi gusti musicali, ho provato una sensazione mista di patetismo e tenerezza. Mi ha fatto comunque riflettere sul fatto che per la musica mi sono sempre sbattuto molto: ho preso treni, fatto viaggi, visto concerti, fondato fanzine, comprato tonnellate di dischi, avuto illuminazioni e delusioni, incontri e scontri. Mi ha ricordato che la musica è parte di quello che sono perché l’ho sempre cercata, mai subita passivamente da una radio o una classifica di successi e che poche cose mi fanno imbestialire come quelli che dicono “A me la musica piace tutta”, senza rendersi conto che stanno denunciando la propria completa assenza di personalità. 

Quindi, grazie amici dark che dal passato più remoto ieri sera vi siete vestiti, agghindati, truccati e colorati i capelli: mi avete riconciliato con il ragazzino un po’ sperduto ma ansioso di conoscenza che sono stato. 


martedì 17 dicembre 2013

L’ALBERELLO DEI LIBRI

Quest’anno per Natale fate una buona azione: regalate dei libri, ma andate a prenderli in una libreria indipendente. Fate questo sforzo. Evitate le grandi catene, peraltro già imballate di gente, uscite dal centro, fate un paio di fermate di metro in più o una passeggiata più lunga del solito. Fatelo con la consapevolezza che state aiutando degli eroi, ossia quei librai che non hanno ancora ceduto alla crisi e stanno tenacemente stringendo i denti. Vi sentirete più buoni, e lo sarete.

Come da tradizione, alcuni miei consigli sui libri da regalare questo natale. 
Avviso: non sono affatto natalizi. 



CLANCY MARTIN - “Adulterio in America Centrale” (Indiana, 14 euro)

Un romanzo breve e crudo sul tradimento e la passione fedifraga: una donna a Cancun per ragioni di lavoro deve incontrare un collaboratore del marito mentre impazza una tempesta tropicale. Tra i due scatta un’attrazione immediata e irrefrenabile e il lettore precipita con loro in questa storia di sensualità e sensi di colpa. Scritto con grande ritmo e sfacciata onestà, è un libro che si legge con un’esatta miscela di eccitazione e apprensione. L’autore ha già pubblicato il romanzo autobiografico “Come si vende” da Adelphi nel 2010 (libro dell’anno per il Guardian e il Times) e anche qui utilizza molto del suo vissuto per dare grande credibilità alla vicenda, come svela nell’intervista che io stesso gli ho fatto, pubblicata al termine del volume. 



DIOGO MAINARDI - “La caduta” (Einaudi, 18 euro)

Storia (vera) di un padre e del suo rapporto col figlio tredicenne affetto da paralisi cerebrale. A differenza della pesantezza che suggerirebbe il tema, Mainardi ha scritto un libro funambolico, pieno di trovate e spunti, in grado di sorprendere, commuovere, sbalordire e far sorridere il lettore. L’autore ha suddiviso la narrazione in 424 frammenti e l’ha affiancata a decine di illustrazioni, riuscendo nella surreale impresa di riportare tanto le immagini tratte dai film di Gianni e Pinotto quanto i quadri del Canaletto alla vicenda di suo figlio Tino, come se tutto nel mondo parlasse di lui e tutto si riferisse a lui. L’autore chiama questi frammenti “passi”, perché per uno spastico ogni passo compiuto in autonomia è una conquista e, da quando ha cominciato a camminare, Mainardi tiene conto di ogni passo compiuto da Tino: è diventata la sua unità di misura della vita.
Un libro coraggioso e innovativo, ma anche un grande esperimento letterario, con traduzione (illustre) di Tiziano Scarpa. 


TERESA CIABATTI - “Tuttisanti” (Il saggiatore, 9 euro)

Prendere un personaggio del nostro costume e trasformarlo in un soggetto letterario: è quello che ha fatto Teresa Ciabatti con Lele Mora, prendendo tutta la sua pacchiana mitologia (le feste sfarzose nella villa in Sardegna, la tunica bianca, i  ragazzotti aitanti che gli si strusciano addosso, gli atteggiamenti da imperatore romano decadente...) e trasformandola in storia-simbolo dei nostri tempi.  Soldi, ambizione, fama, promiscuità sessuale, trash in extremis: c’è tutto. Operazione letteraria intelligente e molto giusta, che ovviamente nessun critico di rilievo (impegnato a recensire Michele Serra, Carofiglio e quelle robe lì) ha colto. Questo libro ha un solo difetto, quello di essere troppo breve. 



GEORGE SAUNDERS - “Dieci dicembre” (minimum fax, 15 euro)


Consigliare questo testo è quasi un’ovvietà, dal momento che è presente in qualsiasi lista di qualsiasi sito sui “Libri migliori del 2013”. Saunders è un autore molto rispettato dalla critica, ma soprattutto adorato dagli altri scrittori. Su di lui tessono lodi Franzen, Pynchon, la Egan, Zadie Smith, ossia alcuni dei pesi massimi della narrativa contemporanea, e del resto basta leggere anche uno solo dei racconti presenti in questa raccolta per capire il perché di tanta ammirazione. Sono tutti testi di un’arguzia notevole, spesso azzardati al punto da disorientare il lettore nelle prime righe. Sono storie che richiedono attenzione e fiducia: all’inizio non capisci bene chi stia parlando o cosa stia avvenendo, devi assecondare il narratore e proseguire e, con un dosaggio che ha del magistrale, a poco a poco gli elementi per decifrare la vicenda vengono svelati. Saunders utilizza punti di vista e stili assai differenti (un diario del futuro scritto con uso di abbreviazioni continue, le fantasie oniriche di un bambino che gioca nella neve, il senso di spaesamento verso la propria famiglia di un combattente di ritorno dal conflitto in Iraq, le sensazioni di un volontario che subisce gli effetti di un farmaco sperimentale). Talvolta perfetti al limite del glaciale, ma ogni racconto è una sorta di lezione di scrittura creativa applicata: leggi e impara. 

mercoledì 4 dicembre 2013

TU CHER CHE RITORNI

Da oggi torna in libreria la mia fiaba natalizia “Tu Cher dalle stelle”. Era esaurita da tempo e molti lettori me ne chiedevano notizia. Sono quindi felice di annunciare che è finalmente disponibile e in una nuova edizione, con una strepitosa copertina firmata da Emiliano Ponzi. L’editore è sempre Playground e costa 7 euro. 
A Natale quest’anno siate buoni: pensate a Cher.


lunedì 25 novembre 2013

POESIA PATERNA

La più bella poesia dedicata a un padre che abbia mai letto è quella che Paolo Nori dedica a suo padre, muratore, pubblicata nell'ultimo libro "Mo mama" (ed. Chiarelettere). Dice così:

"Adesso ho capito che tu sai
quanto è lungo un metro
quanto durano otto ore
quanto pesa un quintale. 
A tanto 
è servito il mio studiare"





martedì 19 novembre 2013

DISCHI PER TESTONI

Il sito letterario “La Nottola di Minerva”, diretto dallo scrittore Ivano Porpora, mi ha chiesto di tenere una rubrica musicale per il proprio blog. Dopo aver valutato e scartato diverse ipotesi, ho deciso che l’argomento che mi premeva di più affrontare era quello degli album che io ritengo essenziali e che nella quasi totalità dei casi il resto del mondo considera marginali e trascurabili. Poiché è evidente che sia io ad avere ragione e gli altri torto marcio, ho così dato il via a una serie intitolata “Dischi che proprio non capite” (sottotitolo: "Una rubrica antipatica di Matteo B. Bianchi). 
La prima puntata è dedicata al mito di Karen Carpenter.
(Karen chi?!? Appunto).

La trovate qui.


lunedì 18 novembre 2013

IL RITORNO ANFIBIO DEI NOME

L’avevo annunciato qualche settimana fa e finalmente ci siamo. Esce questa settimana il nuovo singolo dei Nome, intitolato “Anfibio”. Dopo il successo di “Le cose succedono” e “Io non riesco più a stare zitto”, che vedevano alla voce (oggi si può dire) Davide Toffolo dei Tre allegri ragazzi morti, il nuovo ospite del progetto è il giovane cantautore Davide Ferrario. Oltre a lui, la formazione del gruppo prevede me in quanto autore di testi, Michele “Mezzala” Bitossi (del gruppo Numero6) come autore delle musiche e Ivan A. Rossi nelle vesti di produttore e arrangiatore. Rispetto ai due singoli precedenti, “Anfibio” segna una svolta musicale verso territori più elettrici e urbani. Il testo parla della difficoltà di ognuno di noi... Ma a chi la racconto? Il testo parla della mia difficoltà nel rapportarmi con gli altri, quella sensazione di essere sempre fuori posto e il tentativo disperato di adattarmi ai contesti più disparati, alla ricerca continua dell’accettazione.
“Anfibio” da oggi è in anteprima sul sito di Rockit, con video e download gratuito. 
Da venerdì 22 (data di uscita ufficiale) sarà poi disponibile su tutti i canali digitali.

Ne riporto di seguito il testo.

Buon ascolto!

ANFIBIO

Non deluderti
fare ancora meglio di così
Un sostegno
un compagno
indispensabile

Come in trincea,
come persi nell’alta marea
senza spada
senza radar
senza nemici

Cerco nei tuoi gesti un segno
Qualcosa che plachi il mio travaglio
In divisa e senza distintivo
in playback, ma anche dal vivo
In t-shirt, in abito da sera
in parrocchia o fuori di galera
Un’intera vita in equilibrio
animale, di natura anfibio

E non passerà
questa ansia non si placherà
con il tempo
con l’impegno
con l’analisi
E’ una gara che
a ogni tappa sposta il limite
il baluardo
di un traguardo
irraggiungibile

Cerco nei tuoi gesti un segno
Qualcosa che plachi il mio travaglio

Affettuoso, sguardo glaciale
Stravagante ma molto normale
Sempre sazio, sempre a digiuno.
Sono dei vostri, non sono di nessuno
Un’intera vita in equilibrio
animale, di natura anfibio

mercoledì 13 novembre 2013

UNA MAIL PRIVATA CHE RENDO PUBBLICA

Ciao Matteo,
ti rubo due minuti per dirti una cosa sul post “Novene isteriche”. O meglio su una risposta che dai a un commento, quando, incazzandoti, scrivi: vai in analisi. Il punto è che usi queste parole per attaccare, richiamando (e quindi sostenendo) un implicito che è nella mente di tutti: se uno ha bisogno di andare in analisi è un gradino sotto chi è normale e il suo discorso non può essere valido, a priori.
Lo so, se uno ha problemi non può buttarteli addosso e smerdarti. Il problema però in questo caso è il fatto di non essere corretti o onesti, non il fatto di avere bisogno di andare in analisi. Non è per spaccare il capello in quattro; non mi so spiegare meglio. Tu ti offendi se uno offende chi è gay, ma offendi chi ha bisogno di "andare in analisi". Dire: vai in analisi, come aggressione verbale (in risposta a un'aggressione verbale mascherata da riflessione) equivale a dire: sei uno stronzo. Non è un fatto di senso immediato di quello che dici (magari uno ha veramente bisogno di andare in analisi), ma della connotazione che ha, dell'implicito che richiama, e delle parole come azione in una comunicazione (come dire: stai zitto, vai in analisi piuttosto, idiota - ti sto attaccando, e per farlo uso come arma il discredito sociale che ha chi ha problemi psicologici, o mentali. E indirettamente sostengo quella condanna sociale).

Baci
L.

Cara L.
la tua lettera mi sorprende e mi porta a riflette su quanto spesso i sintetici scambi di battute pubblicati su internet si prestino a fraintendimenti o a libere interpretazioni.
Io sono andato per due volte in analisi, in momenti diversi della mia vita. La prima dopo un grave trauma familiare, circa quindici anni fa; la seconda in tempi più recenti per scelta personale, il bisogno di chiarire meglio con me stesso alcune zone d’ombra che mi sembrava mi ostacolassero il cammino. Considero l’analisi (o l’assistenza psicologica in generale) non solo uno strumento utile per superare certe difficoltà, ma anche una scelta matura e consapevole. 
Inoltre ho studiato psicologia all’università, ho approfondito il discorso sia in ambito disciplinare che privato, per interesse personale.
Tutto questo per dirti che se invito qualcuno ad andare in analisi non ho alcun intento ironico o denigratorio. Intendo al contrario che l’esperienza possa giovargli. 
In particolare lo scambio a cui ti riferisci era la mia risposta alle esternazioni di un certo Paolo che sosteneva che i gay che desiderano adottare un figlio siano irrisolti personalmente e stiano cercando di colmare un vuoto. (cito dal commento: “Il senso di vuoto che molti gay hanno dentro non lo si riempie costringendo un bambino a crescere con due padri e senza una madre, ma accettando la nostra natura.) Una posizione che ritengo francamente inaccettabile e che mi sembra invece la chiara proiezione delle insicurezze di chi scrive. In questo senso l’ho invitato a ricorrere all’analisi. Ho l’impressione che le sue posizioni dogmatiche e ingiustificate riflettano una mancata maturazione, una capacità quantomeno approssimativa di giudicare e affrontare i sentimenti.
Inoltre, io non mi sono offeso perché, come dici tu, Paolo “ha offeso i gay”. Mi sono arrabbiato perché ha stabilito, in maniera arbitraria e insensata, un parallelo tra il bisogno di paternità e la mancata accettazione di sé. Secondo il paradigma stabilito da questo Paolo, io, in quanto gay e non desideroso di figli, sono dunque realizzatissimo e non ho alcun vuoto interiore (pertanto sono un idiota a essere andato in analisi due volte quando non ne avevo bisogno affatto).
Per rispondere alla tua lettera dunque, ritengo che il discredito sociale non stia nel mio - sincero - invito all’analisi, quanto nelle posizioni sclerotiche di questo presunto teorico delle relazioni omosessuali. 

Ti abbraccio,

M


martedì 12 novembre 2013

MONDO PASSWORD

Lista delle password che devo tenermi a mente:

Quella della casella di posta Gmail.
Quella della casella di posta Hotmail.
Quella della casella di posta Yahoo.
Quella della casella di posta Aruba (a nome matteobb)
Quella della casella di posta aAruba (a nome ‘tina)
Quella della casella di posta Libero.
Quella dell’account Facebook.
Quella dell’account Twitter.
Quella dell’account Instagram.
Quella dell’account Pinerest.
Quella dell’account YouTube. 
Quella di accesso al sito matteobb.
Quella di accesso al blog matteobblog.
Quella di accesso a un certo Tumblr che gestisco in anonimato. 
Quella della casella di posta Gmail (a nome Roland).
Quella della casella di posta Gmail (di Indiana editore).
Quella dell’account Flickr di mia mamma (sì, mia mamma ha una pagina Flickr, che gestisco io ovviamente, lei non saprebbe neanche accedervi).
Quella dell’account iTunes. 
Quella dell’account Dropbox. 
Quella dell’account Getpocket. 
Quella dell’account Evernote.
Quella di una certa chat erotica.
Quello di un’altra certa chat erotica.
Quella per accedere ai servizi della mia banca on line.
Quella per accedere ai servizi della mia compagnia telefonica on line.


Ho tralasciato quelle relative ad account commerciali (negozi on line), che sono almeno altre cinque o sei.


venerdì 8 novembre 2013

DÉPÊCHE FICTION

Vabbé, se lo idolatro ci sarà un motivo.
Da alcuni giorni il mio scrittore preferito (Douglas Coupland, che ve lo dico a fare?) ha dato vita a un nuovo esperimento letterario, il tentativo di trovare una nuova formula di romanzo. La forma in sé non è nuova, anzi: si tratta di un classico ottocentesco (la pubblicazione a puntate su un giornale). La novità consiste nel desiderio di integrare il più possibile la contemporaneità dei fatti dentro la narrazione stessa (un libro influenzato in tempo reale da ciò che accade nel mondo) e dal giornale scelto per l’operazione, “Metro”, il free-press distribuito in metropolitana e nelle stazioni, un quotidiano che milioni di persone nel mondo (Italia inclusa) afferrano e leggono ogni giorno sui mezzi per andare al lavoro. 
Ha anche trovato una definizione per questo nuovo tipo di narrativa: “dépêche fiction”. 
Ecco come la spiega lui stesso: 

Non sono più sicuro che la fiction riesca a tenere il passo della vita, e di come la viviamo. Sono uno sperimentatore nato, e voglio tentare qualcosa di nuovo per cercare di sopperire a questa mancanza. L'ho già detto, e lo ripeto: come specie non siamo mai stati così intelligenti eppure non ci siamo mai sentiti così stupidi. Viviamo in un mondo di dispositivi elettronici e di nuvole informatiche e di bolle economiche. Il romanzo tradizionale sarà sempre fondamentale per la civiltà umana, ma ho l'impressione che sia necessaria una nuova forma di narrazione. La chiamo dépêche fiction: una fiction che cambia rapidamente. (Sì, un po' come i Dépêche Mode, una band che mi piace moltissimo). La dépêche fiction è una botta di caffeina. La dépêche fiction è un video pazzesco girato in Russia con una webcam fissata sul cruscotto della macchina. La dépêche fiction è scritta in modo da accumularsi nel cervello con il passare del tempo, per poi schiudersi, come uova aliene, e far dire al tuo cervello: "Hey! Sento un formicolìo, sento qualcosa di nuovo! E in ogni caso ho colto di sorpresa la tua vita!"
Il romanzo si intitola "Temp" (ossia "Temporaneo"). Trovate qui sul sito di Metro la prima puntata tradotta. Le successive vengono pubblicate a scadenza quotidiana. 


martedì 29 ottobre 2013

NOVENE ISTERICHE

Oggi il quotidiano ligure "Il secolo XIX" pubblica un mio intervento su un triste fatto di cronaca di questi giorni. Lo riporto di seguito:

Deve essere davvero grave il peso che un ragazzo si porta sul cuore se decide di togliersi la vita a 21 anni. Vent’anni, l’età d’oro, magica, irripetibile, l’età più bella secondo le canzonette e i detti popolari. Per questo ragazzo, e purtroppo per tanti altri prima di lui, questa età invece è talmente spaventosa che ha preferito farla finita. Ha scelto la morte invece che il futuro: fa impressione pensarlo, ma è così. E un po’ di responsabilità è di tutti noi. Perché questo ragazzo era gay e temeva che nel nostro paese questo non gli avrebbe concesso di condurre un’esistenza serena, possibile. 
L’Italia è razzista. 
Cominciamo da qui. Cominciamo a dirlo, magari provoca qualche reazione. Del resto, un paese che induce al suicidio giovani e adolescenti tanto accogliente e comprensivo non può essere. Un paese che nega alcuni diritti fondamentali a una fetta di popolazione, che si oppone all’approvazione di leggi in grado di contrastare gli attacchi dettati dall’odio e dal pregiudizio non può che essere riconosciuto come razzista. Se lo merita. 
Facciamo un esperimento: provate a sostituire i termini. Provate a pensare che invece di omosessuali si stia parlando di persone di colore, o di ebrei, o di disabili. Pensate un paese che neghi il diritto di sposarsi a due persone perché sono nere o sono disabili o perché di origini ebraiche. Non suona mostruoso? 
Qualche settimana fa è apparsa sui giornali la notizia che nel giorno in cui era prevista la discussione in Parlamento sulla legge contro l’omofobia in alcune chiese erano state organizzate novene di preghiera affinché non venisse approvata. Quanto è grottesco tutto ciò? Un paese in cui si prega perché non venga promulgata una legge che contrasti l’odio. 
Forse sono io che non capisco. Non ci arrivo proprio. A me sembra al contrario che certe verità siano così semplici che non abbiano bisogno di spiegazioni, di lotte in ambiti politici, di schieramenti e opposizioni, di novene isteriche: picchiare qualcuno, torturarlo, sfigurarlo, solo per via del suo orientamento sessuale è un crimine abbietto, ingiustificabile, e va punito severamente. Punto. 
 Io non so quali angherie, quali insulti, quali soprusi abbiano spinto il ragazzo ventunenne di Roma (l’ultimo di un triste e lungo elenco) a gettarsi dalla cima di un palazzo, non posso neanche immaginare un simile abisso di disperazione. In compenso posso ben capire il contesto in cui il suo disagio si è sviluppato e ha preso il sopravvento.
Negare certi diritti equivale a ritenere certe persone meno degne. 
Non approvare una legge contro un certo crimine equivale a ritenerlo meno grave di altri, più giustificabile. 
Mi pare ovvio, ma per molti, a tutta evidenza non lo è. 
In quanto gay mi sono trovato continuamente a dover difendere posizioni che credevo scontate e che invece ogni volta è necessario ribadire. Per esempio, sul senso profondo e reale dei Gay Pride (la contestazione più comune e più becera: -  Se voi fate il Gay Pride allora perché io non faccio un Etero Pride? -. Perché ogni volta che passeggi mano per mano con la tua ragazza o la baci per strada lo stai già facendo il tuo Etero Pride, idiota). Anni di discussioni con colleghi, vicini di casa, amici, familiari. Un gay dichiarato è un politico domestico, deve per forza di cose diventare paladino di se stesso. 
Se le istituzioni arrancano però le risposte cominciano a venire da altre parti. Su modello del sito americano itgetsbetter.org è da poco nato lecosecambiano.org, un portale creato per sostenere proprio i giovani omosessuali vittime di bullismo e incoraggiarli a resistere. Il sito contiene testimonianze scritte e video di personaggi pubblici o semplici cittadini che vogliono lasciare un messaggio di incoraggiamento a questi ragazzi, a dire loro che suicidarsi è sbagliato, che non devono temere il futuro, che al mondo ci sono migliaia, milioni di persone pronte ad amarli e accettarli, che devono avere fiducia.
Speriamo che questo messaggio di speranza arrivi. Che non arrivino loro solo gli insulti, gli schiaffi, gli spintoni in corridoio, gli ammiccamenti sulle scale, l’epiteto sprezzante gridato dal bullo, - Frocio! -, e giù tutta la classe a ridere complice.
Speriamo che sulla cima del palazzo ci salga per guardare l’orizzonte, non per negare a sé un futuro.

E’ per questo piuttosto che io pregherei. Ma di novene di questo tipo non ne sono state ancora organizzate, o mi sbaglio?

martedì 22 ottobre 2013

TACCUINITE


Se c’è una cosa che mi fa impazzire sono i taccuini d’autore. Quando vado in un museo e scopro una teca dove sono conservati i quaderni con gli schizzi e gli appunti dell’artista esposto mi entusiasmo. Se poi i suddetti quaderni includono collages, ritagli, fotografie e piccoli oggetti incollati sopra allora vado proprio in fibrillazione. Da sempre mi affascina l’idea del laboratorio creativo, indagare il processo che porta un artista a realizzare le sue opere e i taccuini corredati da minutaglie rappresentano un po’ l’unica traccia concreta, tangibile, di questo processo. Ma al di là di questa bella motivazione culturale, mi piacciono proprio in sé come oggetti, vorrei averli io a casa, vorrei esporli, vorrei rubarli.


Di recente la casa editrice inglese Thames & Hudson ha pubblicato i taccuini del regista e pittore Derek Jarman, scomparso precocemente nel 1994. Jarman aveva l’abitudine di realizzare quaderni d’appunti per ogni suo film nei quali raccoglieva pagine di sceneggiatura, articoli di giornale, pezzi di stoffa, foto di attori provinati, rametti di piante, lettere, biglietti da visita, banconote straniere, qualsiasi cosa insomma potesse essergli utile per creare l’atmosfera giusta per il suo progetto. 

La lussuosa edizione in volume contiene interventi critici e commenti di personaggi come Tilda Swinton, Jon Savage, Toyah Willcox, Neil Tennant dei Pet Shop Boys, ma è la riproduzione di alcune pagine dei taccuini che lo rende ai miei occhi un libro meraviglioso e irrinunciabile. Da giorni lo sfoglio con gli occhi luccicanti di emozione, e soprattutto indivia. Perché, diciamolo, la verità è che io vorrei, vorrei disperatamente essere in grado di realizzare taccuini così: con quella calligrafia meravigliosa e barocca, con quel gusto per l’impaginazione, con quelle immagini piene di note accanto. Vorrei essere quel tipo di artista. Ci ho pure provato a prendere più volte dei bei quaderni bianchi, delle moleskine, dei blocchi con le pagine setose in carte pregiate, nella speranza che mi inducessero a perseguire questa strada. Ma basta uno sguardo alla mia calligrafia per comprendere quanto l’impresa sia disperata. Desisto, sempre.
Guardo ammirato i taccuini degli altri, come il turista sul molo che fa ciao alla nave in partenza verso posti incantevoli e molto, molto distanti. 

mercoledì 16 ottobre 2013

DIVINA REGINA


Ci sono artisti che risultano affascinanti anche solo sulla carta. Un cantante che ha una doppia carriera, una maschile come cantante indie rock e una da travestito come voce di un duo techno-pop, beh, mi ha conquistato anche solo per l’idea. 
Signori, signore, e soprattutto signorine, vi presento il mio nuovo idolo, tale Reg Vermue. 
Originario dell’Ontario, Canada, Reg ha inciso ben sette album col nome di Gentleman Reg, dischi di rock intimista paragonati dalla critica allo stile di Elliot Smith e Catpower, nonché ha recitato in un breve ruolo nel film “Shortbus” di John Cameron Mitchell. 


Da un paio d’anni però Reg si è dedicato a un nuovo progetto. In coppia col tastierista James Button della band di Toronto Ohbijou, ha fondato il duo dei Light Fires e si esibisce nelle vesti di “Regina the Gentlelady”. Dopo il singolo “Ten feet fall”, pubblicato quest’estate in edizione limitata su vinile bianco 45 giri, a settembre è uscito il primo album, “Face”, un’irresistibile raccolta di canzoni electropop come si facevano una volta (siamo nei dintorni degli Yazoo, per intenderci). Si tratta di un disco pensato sia per un circuito dance alternativo, che per gli amanti del pop non omologato. I testi non sono esattamente quelli della Tatangelo (su tutte, la felice intuizione del sintetico ritornello di If you’re bored: “Se ti annoi, allora scopa”, ma non dimentichiamo anche quello di I like to work: “Mi piace lavorare... Ti passo i ferri del mestiere, mettiti in ginocchio e ti mostro come si fa”, una vera poetessa). 


La migliore definizione del disco è quella offerta dalla recensione apparsa sul blog canadese “Ride the tempo”, che più o meno dice: “Questo album è la colonna sonora della libera uscita in città di una ragazza, o di chiunque voglia esserlo per una notte”.  
Un disco divertente, ballabile, con sonorità tra il revival e l'alternativo, di facilissima presa. E un personaggio alla voce che spacca già dalle fotografie. 


Domanda vostra: Ma Matteo come fai a scoprire sempre queste stranezze, eh? Come fai?
Risposta: Lo confesso: Reg Vermue è amico di miei amici di Toronto. Sono venuto a conoscenza dei Light Fires quest’estate solo perché hanno messo l’album in sottofondo una sera a cena. Diciamo quindi che sono a un grado di separazione da Regina the Gentlelady. E però, essendo di una generosità sconfinata, ho deciso di condividere la scoperta. 

Seconda domanda vostra: Non dirmi che possiedi anche il limitatissimo 45 giri in vinile bianco?
Risposta: Eccerto!



Vi lascio col video di "Ten feet tall".


martedì 8 ottobre 2013

PURI DI CUORE A BROOKLYN

Ripropongo di seguito una mia recensione pubblicata domenica 29 settembre su L'unità:



Nel corso degli ultimi anni Brooklyn sembra essere diventata il centro culturale del mondo: tutti i principali scrittori americani ci vivono, qui nascono le nuove riviste di narrativa di tendenza e hanno luogo i festival letterari, è lo scenario dove si svolge “Girls”, la serie tv che ha reso la sua giovane ideatrice Lena Dunham una star, ed è la capitale planetaria degli hispster. Forse un po’ troppo perché possa essere preso tutto sul serio. Ecco allora che cominciano timidamente a emergere tentativi di mettere in discussione, magari anche in maniera ironica, questo presunto primato. 
E’ il caso di “Trascurabili contrattempi di un giovane scrittore in cerca di gloria”, il nuovo romanzo di Michael Dahlie (edizione Nutrimenti, tradotto da Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai), ambientato nel cuore pulsante della Brooklyn letteraria, il quartiere di Williamsburg.  
Ne è protagonista Henry, venticinquenne, laureato ad Harvard, aspirante autore, proprietario di un appartamento di lusso e soprattutto erede di ben 15 milioni di dollari. E’ grazie a questa sua disponibilità economica che viene coinvolto nella nascita di una nuova rivista letteraria, “Il demente”, da lui generosamente finanziata. Malgrado ne sia il principale contribuente gli viene però affidato il ruolo marginale di redattore indipendente e i suoi tentativi di proporre qualche racconto per la pubblicazione falliscono. La rivista gli fornisce tuttavia l’alibi di sentirsi parte integrante della scena culturale del quartiere, gli permette di frequentare presentazioni letterarie e gli fornisce argomenti di conversazione con Abby, una cugina di quarto grado di cui è infatuato. 
Presto il lettore si trova a scoprire che Henry è un perfetto ingenuo, incapace di far valere il proprio potere presso gli altezzosi redattori del Demente, trattenuto negli approcci con Abby dallo spettro della lontana parentela, pronto a subire rifiuti e umiliazioni senza mai mostrare traccia di frustrazione. Un puro di cuore come nella narrativa contemporanea non ne esistono più. Inutile dire che un simile personaggio è destinato ad avversità di ogni tipo, e infatti nel corso del romanzo gliene capiteranno parecchie, alcune gravi e altre sfacciatamente ridicole. Eppure è proprio la natura di Henry il punto di forza del libro: l’intensità con cui vive il rapporto con il suo migliore amico, il rimpianto commosso del padre scomparso, la scelta di scrivere racconti che hanno per protagonisti solo ultraottantenni... E’ quasi una boccata d’aria leggere di un personaggio tanto differente dai suoi contemporanei. 
Il “New York Times” recensendo il romanzo ha voluto ovviamente riesumare il Candido di Voltaire, ma senza andare tanto indietro nei secoli, l’Henry di Dahlie è un parente prossimo dei personaggi di Jonathan Ames (altro scrittore residente a Brooklyn), come l’Alan di “Sveglia, sir!” e il Lou Ives di “Io & Henry”. Se però gli eroi di Ames sono dei dandy impegnati a seguire modelli di eleganza e galanteria desueti ma con feticismi e fissazioni sessuali molto contemporanee, il protagonista del romanzo di Dahlie è un innocente ostinato, legato sì a valori forse antiquati, ma con la determinazione e l’incoscienza di un ragazzino. 
Non a caso il romanzo acquista potenza nel momento in cui Henry incontrerà la sua nemesi, un affermato attore hollywoodiano che lo assumerà come ghost-writer: lo scontro fra gli ideali romantici di uno e l’arroganza senza scrupoli dell’altro non potranno che provocare conseguenze nefaste. 
Il pregio di Michael Dahlie è di evitare miracolosamente di trasformare i suoi personaggi in macchiette, sebbene ci siano tutti i presupposti per farlo. Il romanzo sembra più aggirarsi nei territori della favola morale che del ritratto farsesco. 
“Trascurabili contrattempi di un giovane scrittore in cerca di gloria” è dunque un libro di una leggerezza elegante, al termine del quale non possiamo fare a meno di chiederci se sia Henry troppo puro per essere vero o se siamo diventati noi tutti troppo cinici per continuare a credere nell’esistenza dell’innocenza.  
Un’ultima curiosità: il titolo italiano del romanzo è del tutto posticcio, non ha nulla a che vedere con l’originale, ma non avrebbe potuto essere altrimenti. Negli USA il romanzo è uscito infatti come “The best of youth”, ossia “La meglio gioventù”. L’autore ha ammesso di averlo preso in prestito dal film di Marco Tullio Giordana, ma non è difficile intuire una doppia valenza ironica nella scelta: la meglio gioventù, quale quella snob, pretenziosa ed effimera di certi presunti ambienti culturali, o anche il meglio della giovinezza, ossia la catena di disastri che dovrà subire lo sventurato Henry prima di raggiungere una certa maturità, personale e sentimentale. In entrambi i casi, per meglio si intende proprio il peggio.


giovedì 3 ottobre 2013

LE PAROLE CAMBIANO


Nel marzo di due anni fa ho pubblicato un articolo su L’unità che poi ho ripreso su questo blog in un post. L’articolo riguardava l’uscita americana del libro “It gets better” di Dan Savage per sostenere gli adolescenti gay vittime di bullismo e aveva suscitato un enorme interesse. Tra le varie reazioni che aveva provocato c’è stata quella di stimolare la curiosità della casa editrice Isbn, che ne ha acquistato i diritti per l’edizione italiana. Con il titolo “Le cose cambiano” oggi il libro esce in Italia. E’ distribuito sia in libreria che in edicola (come allegato al Corriere della sera) e costa 7.90 euro. Come nel caso dell’originale americano, ispirato da un canale YouTube, anche questo è legato a un portale di testimonianze video, già attivo da qualche mese.
L’edizione italiana in volume raccoglie il meglio di quella USA più una serie di interventi scritti appositamente da autori italiani, fra i quali compaiono Ivan Cotroneo, Walter Siti, Aldo Busi, Anna Paola Concia, Alcide Pierantozzi, Piergiorgio Paterlini. Anch’io ho scritto un pezzo, ma al di là della mia presenza come autore sono particolarmente felice di aver contribuito indirettamente alla nascita del progetto in Italia. Per carità, forse sarebbe successo tutto comunque, magari solo un po’ più tardi o con altre modalità. Comunque l’idea che tramite un singolo articolo si sia messo in moto un intero movimento mi sembra essere una prova, eloquente, sbalorditiva, della forza che ancora hanno le parole.


mercoledì 25 settembre 2013

LE PAROLE PER DIRLO

Minima & moralia, il blog di minimum fax, oggi ospita un mio intervento (grazie per l'ospitalità).
Lo riporto anche qui di seguito:


I miei genitori non sanno più nominare i programmi che vedono. Sanno descriverli: – Quello della ragazza che dipinge i mobili – (“Paint your life”), – La serie ambientata durante il Proibizionismo – (“Boardwalk Empire”), – Quella della cupola – (“Under the dome”). I miei genitori sono due pensionati che non sanno l’inglese, ma vivono in Italia e guardano i programmi che la tv italiana trasmette. La verità è che un numero elevatissimo di trasmissioni ormai conserva il titolo originale americano. Ancora più assurdamente, il titolo in inglese è usato anche per programmi originali di produzione nazionale. In alcuni casi i miei non riescono neppure a pronunciarlo (“Extreme makeover home edition”), in tutti gli altri non capiscono perché tenere a mente un’accozzaglia di parole straniere per indicare cosa stanno guardando.
La domanda che pongo è: sono loro ad avere torto?
Dovrebbe far riflettere che l’abitudine diffusissima e forse inarrestabile di lasciare i titoli originali si colloca in un contesto nel quale i medesimi programmi sono interamente doppiati. A parte il nome dunque, tutto il resto è in rigoroso italiano.
Basta scorrere i palinsesti, in particolare quelli dei canali digitali o satellitari dedicati ai telefilm, per rendersene conto. Viene da chiedersi però fino a che punto questa uniformità abbia un senso.
Perché “The bridge” non si chiama “Il ponte”? Perché “The following” non è “La setta”? Perché “Homeland” non è “Patria”? Perché “The good wife” non è “La brava moglie”? Si vuole a tutti i costi mantenere l’originale? Bene. Per quale motivo allora non c’è un semplice sottotitolo sotto con la traduzione letterale? Dalla sigla in poi, tutto il resto verrà tradotto. Perché proprio il titolo, elemento fondante di una serie, no?
La conservazione dell’originale comporta la perdita di diverse sfumature di significato. Gli studenti di medicina italiani studiano sul testo classico “L’anatomia del Grey”. Perché non tenerne conto quando si ha una serie che come “Grey’s anatomy”, che proprio da quel testo prende lo spunto?
Torniamo a casa mia. Mia madre e le sue amiche non sono in grado di pronunciare “Desperate housewifes”, ma fra di loro ne parlano, sensatamente, chiamandole “le casalinghe disperate”. Nel caso specifico nel nostro paese si è giunti al paradosso. Non solo è stato scelto di rinunciare a titolo efficacissimo e molto azzeccato come “Casalinghe disperate”, ma si sono peggiorate le cose accostandovi un sottotitolo fuorviante, “I misteri di Wisteria Lane”, che oltre ad alludere a un contenuto giallo che era solo vagamente presente nella prima stagione, aggiunge altri termini inglesi.
La questione non si limita all’ambito televisivo. Al cinema è anche peggio. E’ sufficiente scorrere la lista dei film in sala in questo momento e di quelli in uscita. Fa impressione: “Royal affair”, “In another country”, “Monster University”, “The spirit of ’45”, “The grandmaster”, “Rush”, “You’re next”, “The bling ring”, “Gravity”, “Love Marylin” “Before midnight”, “The frozen ground”, “White House down”, “The chronicles of Riddick”, “The fifth estate”, “The seventh son”… E questo elenco si limita al periodo fra qui e ottobre. Talvolta il mantenimento del titolo originario avviene a completo discapito della sua comunicabilità (in quanti riferendosi al thriller con Denzel Washington “Death at 3600” avranno chiamato gli amici per proporre: – Andiamo al cinema a vedere “Death at three thousand six hundred” -?). Altre volte ignora del tutto il problema della sua comprensibilità (trovatemi almeno uno spettatore in grado di tradurre “Quantum of solace”, titolo del penultimo 007).
Non posso fare a meno di notare anche che questo istinto alla conservazione si limita ai materiali di provenienza americana. I titoli di film francesi, spagnoli, tedeschi vengono sempre tradotti. Sono rarissime le eccezioni (a me è venuto in mente solo “La mala educatiòn” di Almodovar, ma ce ne saranno anche altri immagino). In sintesi, il tutto mi puzza di provincialismo del più becero. Tu vo’ fà…
Quando pongo la questione in una discussione fra amici di solito c’è qualcuno che la giustifica in questi termini: meglio conservare il titolo originale piuttosto che subire quegli obbrobri a cui arriva la distribuzione italiana. A supporto del ragionamento vengono citati esempi eloquenti quali “Eternal sunshine of the spotless mind”, da noi uscito come “Se mi lasci ti cancello”. Trovo questa obiezione risibile: fra una titolazione che offende l’intelligenza dello spettatore e il mantenimento dell’originale ci potrà essere una terza via, no? Intendo un lavoro serio e intelligente che si sforzi di produrre un titolo fedele e significativo. Come già dovrebbe avvenire, senza che ci sia l’esigenza di richiederlo.
Neanche l’editoria è immune al fenomeno. Certo, in maniera molto minore, ma anche qui non mancano i casi ingiustificabili. Prendiamo per esempio la bibliografia italiana di Chuck Palahniuk e chiediamoci perché i suoi libri da noi si chiamino “Invisible monsters”, “Guinea pig”, “Survivor” e (il più patetico di tutti) “Diary”. Pareva brutto dare a un romanzo in forma di annotazioni giornaliere il titolo di “Diario”? A quanto pare sì.
Intendiamoci, non sono contrario all’uso dell’inglese in sé. Io stesso ho usato una canzone inglese come titolo per un romanzo, e non avrebbe avuto alcun senso tradurla. Quello che contesto è il dilagare incontrastato del fenomeno, l’idea che i titoli inglesi in un paese che doppia tutto diventino una semplice abitudine senza che nessuno la metta in discussione, che il provincialismo l’abbia vinta sull’esigenza (legittima) della decodificabilità.
Ci sono contesti nei quali la diffusione della terminologia inglese avrebbe un senso molto maggiore. Chiunque abbia viaggiato in luoghi come i paesi scandinavi avrà notato quanto l’uso dell’inglese sia diffuso. Anche la signora con le borse della spesa incontrata per strada in un villaggio di provincia è in grado di dare indicazioni allo straniero che si è perduto. In queste regioni la convivenza fra la lingua nazionale e una internazionale è un dato di fatto (basti pensare alle decine di gruppi pop che il cui intero repertorio è stato pensato e realizzato sin da subito in inglese, dagli Abba agli A-ha, dai Knife ai Roxette). Distribuire materiale in lingua anglosassone qui sarebbe funzionale, se non addirittura naturale.
In Italia, a giudicare dai manifesti dei film o persino dagli slogan pubblicitari, un turista sarebbe portato a credere che l’inglese sia di dominio pubblico: niente di più lontano dalla realtà. Gli andrà di lusso se l’autista dell’autobus saprà dire “Ticket”, indicando con un gesto della mano dove acquistarlo.
L’imbarbarimento linguistico nella comunicazione rivolta ai giovani (la hit più cool momento, l’action-video in esclusiva sul tuo digital store, il beach party più hot dell’estate) fa sempre parte di questa tendenza all’approssimazione totale.
La dicotomia fra la presunta padronanza di una lingua straniera e la sua effettiva (scarsissima) diffusione presso la massa è dolorosamente evidente e rischia di essere  deleteria: invece di trasmettere un sapere ci si accontenta di frammenti casuali e superficiali, che forse in pochi capiscono, ma comunque fa figo citare e riportare.
Appunto, ancora: provincialismo puro.
Ne faccio una questione culturale a partire da una frustrazione squisitamente personale. Perché non so cosa avvenga coi vostri genitori, ma quando io vado a cena dai miei e impieghiamo minuti per spiegare a vicenda gli spettacoli che stiamo seguendo, come stranieri che fanno fatica a comprendersi, ecco, a me viene una certa tristezza.


martedì 24 settembre 2013

UN DISCO PER L’ESTATE (CHE È FINITA, FRA L’ALTRO)


Personalmente, l’appuntamento che attendo con maggiore trepidazione della nuova edizione di Roland è quello conclusivo, il reading/concerto di Aldo Nove insieme a i Camillas. Se Aldo Nove però è un autore celebre e non ha bisogno di presentazioni, molti ignorano chi siano questi Camillas. Male, perché sono un gruppo originalissimo e hanno fatto un nuovo album che spacca. Quindi ho deciso di scrivere una recensione del loro ultimo cd come forma di presentazione per coloro che non li hanno mai sentiti nominare.
Eccola:



Difficile spiegare I Camillas a chi non li conosce. 
Cerchiamo di farlo con ordine:
Intanto sono un duo. Quindi polistrumentisti, abituati a cavarsela da soli.
Poi sono di Pesaro. Quindi indie di provincia.
Infine sono pazzi, nel senso che producono dischi di un livello di creatività talmente incontenibile che per l’ascoltatore medio risultano solitamente uno shock. Quando fate ascoltare un disco de I Camillas a un amico la reazione standard è: “Ma cos’è ‘sta roba?”. In questo caso meglio cambiare amicizie, ma andare fieri dei propri gusti musicali. 

L’ultimo album, uscito alla fine del 2012, si intitola “Costa Brava” e più che un disco verrebbe da definirlo una discografia, perché all’interno c’è di tutto: 16 brani più una ghost-track, che sono una carrellata di generi miscelati con totale disinvoltura. 
Questo è il terzo capitolo della produzione targata Camillas: hanno esordito con l’ep “Everybody in the palco!”, seguito dall’album “Le politiche del prato”. “Costa brava” però a mio avviso rappresenta un salto evolutivo: mi sembra che qui i pesaresi raggiungano il loro vertice, perché ogni brano contenuto è bello, ma in modo sempre diverso. 
Il cd si apre con “Giovane donna”, che si potrebbe agilmente definire il perfetto incrocio fra i New Order e Cochi & Renato (ma che razza di incrocio è?!?): un muro di chitarre e un ritornello (“Vai, giovane donna vai, più forte di me”) ripetuto in continue varianti, quasi cabarettistiche. Non so se abbia senso, so solo che è bellissimo. 
Va detto che coi Camillas il dubbio è sempre un po’ quello: se stiano scherzando o facciano sul serio, e non è mai dato capirlo. Bastano alcuni titoli a suggerire la loro follia: un pezzo si intitola “Brano violento” - e, ovviamente, è lentissimo; un altro si chiama “Il ritorno avambraccio” (cioè? Boh).
Musicalmente si concedono qualunque cosa: si passa dall’electro-pop di “Capita”, alle ballate acustiche “Rovi” o “Bel pomeriggio”, al dub della già citata “Il ritorno avambraccio”, al puro pop di “Gli arpeggi”, sino a punk alla CCCP-Fedeli alla linea nello scatenato “Cane”. Come se tanta eterogeneità non bastasse si divertono a includere anche un finto canto popolare siciliano (“Sissignuri”) e una struggente canzone neomelodica napoletana (“Incajate”). Il pezzo conclusivo, “La canzone del mare”, inizia come una dolente ballata cantautorale e finisce con intensi echi elettronici alla “Atmosphere” dei Joy Division. Un distillato di influenze, sfacciato e consapevole.  
La vera forza dei due pesaresi però sta nell’uso della lingua, sempre creativo e spiazzante. In “Cane” cantano: “Sei un cane, ti piace sbavare, a volte abbaiare, nei prati correre” ma lo pronunciano corrère, con l’accento spostato, per mantenere l’assonanza. In “Gli arpeggi” si inventano un liberissimo uso del riflessivo: “Gli arpeggi che mi sei”. 
Adoro I Camillas perché ogni loro disco comporta tre strati: il primo ascolto implica continue sorprese (cosa succederà adesso?). La seconda fase è quella nella quale familiarizzi con i cambi di registro: ascolti il testo per bene e sei già preparato agli arditi sbalzi musicali. Infine, c’è il livello finale, quando hai superato l’analisi e hai solo il piacere ripetuto dell’ascolto per un disco così ricco di melodie e idee. 
È l’esatto contrario dei successi radiofonici assimilabili al primo ascolto: qui c’è troppo perché tu possa capirlo la prima volta. E’ un album a rilascio graduale, come una flebo. Non una botta, ma tante goccine che poi ti fanno stare meglio.  
“Costa Brava” è il capolavoro de I Camillas ed è il disco italiano dell’anno. Ma lo capiremo solo in quattordici. 



venerdì 20 settembre 2013

ROLAND: IL RITORNO


Eccoci finalmente: il 27,28 e 29 settembre torna a Milano “Roland. Macchine e animali”, la manifestazione letteraria di tre giorni ospitata nella splendida cornice post-industriale di Assab One, con dibattiti, reading, interviste e spettacoli.

Fra gli appuntamenti di quest’anno ci saranno: le poesie sorprendenti di Francesca Genti, Guido Catalano e Giovanni Previdi accompagnati dalla cantante Manupuma, uno spettacolo a due voci con Tiziano Scarpa e Tricarico, uno scontro di pugilato interattivo con Valerio Millefoglie e Marco Rossari, un’esplorazione nei segreti creativi di Antonio Moresco ed Ermanno Cavazzoni, una divertente analisi dei ringraziamenti posti al termine dei romanzi con Carolina Cutolo, Sergio Garufi e Matteo Bordone, un improbabile show di Aldo Nove insieme al folle duo dei Camillas. 

E ancora: Fulvio Ervas (autore del best-seller “Se ti abbraccio non aver paura”) parlerà di letteratura sul dolore insieme a Giuseppe Genna, Andrea Tarabbia e Guido Mazzoni, mentre Michela Murgia discuterà con Alessandro Bertante, Alberto Garlini e Massimiliano Panarari sul perché i festival letterari hanno tanto successo. E se vi siete mai chiesti chi prende le decisioni più importanti in ambito editoriale, ora potete scoprirlo. Abbiamo invitato tre vertici dell’editoria per svelare il mistero: Stefano Mauri, Paolo Repetti e Massimo Turchetta. Dulcis in fundo, la conduttrice di radio DeeJay Marisa Passera e l’attrice Carolina Crescentini presenteranno il premio per il miglior racconto del concorso “Spirito Noir”.

Non è ancora finita. Per gli autori esordienti abbiamo ideato un laboratorio di editing dal vivo: Giulio Mozzi analizzerà un testo già pubblicato della scrittrice Giusi Marchetta e ne evidenzierà nuove, possibili versioni. Chi invece è affascinato dalla traduzione, potrà partecipare alla lezione di Matteo Colombo, uno dei nostri migliori traduttori (che ha firmato, tra le altre, le edizioni italiane di Chuck Palahniuk, David Sedaris e del premio Pulitzer Jennifer Egan). 

Anche i bambini avranno uno spazio a loro dedicato, con un laboratorio di narrazione e illustrazione, con Barbara Frandino e Elena Temporin, al termine del quale ognuno di loro avrà prodotto il proprio libricino da portare a casa. 

C’è altro? Ah sì, un aperitivo gratuito sabato sera alle 19 e la possibilità di venire ad Assab o tornare a casa in taxi gratis col servizio Uber. Cosa volete più di così?

Info e programmi su www.rolandscritture.it

PS: Se le istruzioni per iscriversi ai laboratori o utilizzare Uber non sono ancora sul sito abbiate pazienza: fra poco ci saranno, tornate a cliccare fiduciosi. 


martedì 17 settembre 2013

RIVISTE INTERVISTE: INUTILE


Continua la serie di interviste ai redattori delle riviste di narrativa italiana. Oggi è la volta di “Rivista Inutile”. 

CHE COS’È “INUTILE”? COME È NATA E PERCHÉ?

inutile è la rivista che noi per primi vorremmo leggere.
Siamo nati nel 2005, online dal 2007: da allora aggiorniamo un sito, tutte le settimane, più volte a settimana, e una rivista cartacea, tutti i trimestri (anche se per i primi 46 numeri l'abbiamo fatto tutti i mesi) (e siamo sopravvissuti per raccontarlo!). Dal 2008 abbiamo anche un'associazione che ci protegge e coccola.

PERCHÉ AVETE SCELTO DI CHIAMARLA PROPRIO “INUTILE”?

Be’, perché era un bel nome.

CHI FA “INUTILE”?

La fanno Ale e Matteo, dal 2005, e sono gli unici che si ricordano il numero zero, che era virato al sepia e osceno. Negli anni ci sono state tante persone in redazione: adesso ci sono Nicolò, Tamara, Marco, e Leo, che è il migliore grafico del mondo.

COME LA DISTRIBUITE E DOVE SI TROVA?

Si trova online a www.rivistainutile.it, lì ci sono i contenuti che mettiamo a disposizione di tutti. Il trimestrale invece è spedito su abbonamento (cartaceo o digitale), ed è quindi riservato soltanto ai soci, che ci vogliono bene nonostante ogni tanto arriviamo in ritardo.

SAPETE QUANTI LETTORI AVETE?

Un centinaio di abbonati e più di 5mila contatti al mese sul sito, sempre stabilmente in crescita anche se di quello 0,0001% alla volta.

TALVOLTA I VOSTRI NUMERI SONO TEMATICI, ALTRE LIBERI. COME STABILITE I CONTENUTI?

Bevendo molta birra: uno di noi ha un’idea qualsiasi, la presenta agli altri e se è valida la si porta avanti.

COME SELEZIONATE IL MATERIALE DA PUBBLICARE?

In base ai nostri gusti. Fondamentalmente c’è un solo criterio: ci deve piacere.

DATE DELLE INDICAZIONI AGLI SCRITTORI ESORDIENTI CHE STANNO LEGGENDO QUESTA INTERVISTA E VOGLIONO SOTTOPORVI DEL MATERIALE. COSA STATE CERCANDO? E COSA ASSOLUTAMENTE NON VI
INTERESSA?

Non siamo dei grandi conoscitori di narrativa di genere, per fare un esempio: non sapremmo valutare la qualità di una scrittura simile. Idem la poesia. Per il resto, cerchiamo dei pezzi onesti, in cui l’autore non si nasconda. Non significa per forza raccontarci di quando veniva torturato da bambino e costretto a guardare Heidi: ma deve mettersi in gioco, e bene.

LA DOMANDA PRINCIPE: PERCHÉ FATE UNA RIVISTA DI LETTERATURA? NON ERA MEGLIO ANDARE IN DISCOTECA E DROGARSI COME TUTTI?

Pensavamo ci fosse più figa.