La newsletter "Futura" del "Corriere della sera" questa settimana ospita un mio breve racconto basato su un ricordo scolastico. Una storia di alunni disagiati e insegnanti capaci.
La potete leggere qui.
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venerdì 1 giugno 2018
venerdì 25 maggio 2018
ORFANI DI SHEELA
Ogni tanto succede che un libro, un film o una serie tv suscitino un dibattito che ha l’aria di essere onnipresente e collettivo (all’improvviso ti sembra che ne parlino tutti e ovunque). In questi ultimi mesi è il caso senza dubbio di “Wild wild country”, documentario in sei puntate di Netflix legato alla fondazione di Rajneeshpram, la gigantesca comune che i discepoli di Bhagwan Shree Rajneesh, meglio noto come Osho, avevano aperto nel 1981 in Oregon. La serie tv, più appassionante e imprevedibile di una fiction, benché basata unicamente su materiali di repertorio e interviste, metteva in luce soprattutto il ruolo centrale giocato da Ma Anad Sheela, la segretaria personale di Osho e vero motore primo dell’intera vicenda Rajneeshapuram, dalla sua nascita alla sua distruzione. Sfrontata, magnetica, arguta, inattaccabile, al contempo diabolica e angelica, Sheela è un personaggio degno di Dostoevskji, che esce dallo schermo per imprimersi a fuoco nella memoria dello spettatore
Il documentario racconta in maniera egregia una storia che però è talmente surreale e sbalorditiva da lasciare nel pubblico una scia di curiosità e domande. Al termine della visione quelle sei ore appaiono persino poche, ne vorremmo altre due, quattro, dieci. Vorremmo saperne di più sulle tante questioni che solleva, sulla fine che hanno fatto i vari protagonisti e, soprattutto, inutile dirlo, sulla figura enigmatica e meravigliosa di Sheela.
Quasi rispondendo in maniera subliminale a questo desiderio collettivo, la giornalista Roberta Lippi ha fatto ciò che quasi tutti noi orfani della serie speravamo che qualcuno facesse: ha letto articoli, libri, interviste, ha visto video e documenti presenti on line, alla ricerca di queste risposte. L’ha fatto per quella che considerava un’ossessione personale, ma che in seguito ha scoperto essere ampiamente condivisa. Così ha deciso di trasformare la sua indagine privata in un documento pubblico, realizzando un e-book che è la manna dal cielo per tutti coloro che vogliono saperne ancora. Intitolato “Wild Wild Sheela” il libro raccoglie in 100 punti gran parte delle domande che sono rimaste inevase nel documentario.
Una lettura compulsiva che ha tutto il sapore del perfetto guilty pleasure e che permette di chiudere il capitolo su Rajneeshpuram con qualche certezza in più. Lo trovate su IBS.
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sabato 14 aprile 2018
SOLO A NOLO
Il quartiere dove vivo a Milano da un paio d'anni è stato ribattezzato NoLo (North of Loreto), una sorta di scherzo linguistico che però ha coinciso con la rinascita sociale del quartiere stesso: l'apertura di nuovi locali, la nascita di gruppi e associazioni, il lancio di una web-radio e così via. Vivere oggi in queste strade non assomiglia affatto a com'era solo tre o quattro anni fa. Tra le varie iniziative c'è anche quella di un festival musicale "semi-serio" chiamato San Nolo, che si è svolto in questi giorni. Nella serata finale del festival sono salito sul palco a leggere un ritratto altrettanto "semi-serio" del quartiere. Lo ripropongo qui.
Solo A Nolo cinque anni fa le case te le tiravano dietro e oggi costano come a San Babila.
Solo a Nolo abbiamo l’arroganza di avere il capolinea di un tram e ovviamente è l’1!
Solo a Nolo possiamo considerare biciclette e piante un accostamento commerciale sensato nello stesso negozio.
Solo a Nolo possiamo pensare che una macelleria sia il luogo adatto per un aperitivo.
Solo a Nolo possiamo pensare che “Ghe pensi mi” sia un nome adatto a un bar hipster.
Solo a Nolo possiamo pensare che “Noloso” sia un nome adatto a un bar gay.
Solo a Nolo possiamo pensare che “Salumeria del design” sia un nome adatto a… qualunque cosa facciano alla Salumeria del design, che io non l’ho mai capito.
Solo a Nolo se accendi Grinder ti segnala 5 persone a zero metri (cioè nel tuo palazzo).
Solo a Nolo trovi la “Chiesa cristiana dello spirito santo” nella vetrina adiacente al sexy shop. Peccato e assoluzione in un’unica soluzione.
Solo a Nolo può aprire una pizzeria che sia chiama Randez-vouzscritto Randevu.
E Solo a Nolo hanno il buon cuore di farglielo notare, coì sei mesi dopo c’è la scritta giusta.
Solo a Nolo i barbieri scrivono in vetrina “Orario continuato dalle 9 alle 12.30 e dalle 15 alle 19.30”.
Solo a Nolo ritengono sensato dedicare una piazzetta al “governo provvisorio”. (Mi chiedo perché non una, che ne so, al crollo in borsa o allo sciopero dei mezzi).
Solo a Nolo sono convinti che ogni iniziativa debba necessariamente avere il nome del quartiere nel titolo: il coro Cornolo, le visite guidate Giranolo, il gruppo lavoro a maglia Lanolo, il gruppo di fotografia Photonolo e (che Dante abbia pietà di noi) il giorNolo radio.
Solo a Nolo non hanno capito che ci sarà un motivo se negli altri quartieri non utilizzano nomi tipo il Giracorvetto, il GiornIsola Radio, il Bicocca di mamma (gruppo di babysitter), il Non Mi Niguarda (gruppo di isolazionisti) o il Gratosoglio pontificio (gruppo di preghiera).
Scommetto che Solo a Nolo c’è pure gente convinta che uno sciroppo per la tosse sia dedicato al quartiere. Invece vi assicuro che esisteva da molto prima il Bronchenolo.
In questo delirio linguistico Solo a Nolo non esiste l’unica attività che lo giustificherebbe nel titolo: tipo un noleggio di biciclette, “Bici a Nolo”. Quello no, non ci piace. Troppo ovvio.
Solo a Nolo non puoi organizzare un gay pride, per il rischio che tutti siano nel corteo e non ci sia nessuno ai lati della strada ad applaudire.
Solo a Nolo possiamo avere un cinema di quartiere che alle tre di pomeriggio proietta film ucraini in lingua originale e noi andiamo a vederli.
Solo a Nolo si può essere convinti che quella di Morbegno sia una piazza (è una rotatoria amici, riconoscetelo).
Solo a Nolo puoi incontrare la ristoratrice cinese Kiji che va in giro per via Venini con una maschera in faccia (perché lei è un artista).
Solo a Nolo ogni venerdì e sabato notte, quando chiude la discoteca latina Bahia, via Popoli Uniti si trasforma nello stadio Maracanà quando il Brasile ha vinto i mondiali..
Solo a Nolo puoi lanciare dal palco l’iniziativa di un bando senza specificare a cosa sia dedicato e al pubblico sembra sensato.
Però ammettiamolo: Solo a Nolo abbiamo saputo inventarci un nome per il quartiere e poi farlo esistere realmente. Siamo stati bravi.
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martedì 11 luglio 2017
McSWEENEY’S BIG MISTERY
Chi segue questo blog sa bene quanto sia appassionato (ok, usiamo pure l’espressione fanatico) di riviste letterarie. Ne parlo di continuo, tanto on line quanto negli incontri in libreria o nelle lezioni nelle scuole di scrittura creativa che mi capita di tenere. Le illustro, promuovo, le esalto. Fra le innumerevoli riviste letterarie presenti sul mercato mondiale non ho mai fatto mistero di quanto la mia preferita sia “McSweeney’s”, fondata a San Francisco nel 1998 dallo scrittore Dave Eggers. È l’unica rivista della quale possieda l’intera collezione, dal numero 1 all’ultimo, orgogliosamente esposti nella mia libreria, come testimonia questa foto.
Il nome per esteso della rivista in origine era “Timothy McSweeney’s Quarterly Concern”, ossia “Le preoccupazioni quadrimestrali di Timothy McSweeney”. Un titolo assurdo, che si rifaceva alla figura di un presunto corteggiatore della madre di Eggers che per anni ha scritto lettere affettuose alla donna prima di scomparire, rimanendo però una sorta di nome mitologico per i membri della famiglia.
Come il suo ispiratore col tempo anche i riferimenti a Timothy McSweeney scomparvero dalla rivista, universalmente conosciuta ormai col semplice nome di “McSweeney’s”.
Le caratteristiche principali del periodico sono due: da un lato la qualità altissima dei contenuti (le firme più illustri della narrativa americana hanno pubblicato inediti sulle sue pagine, dove hanno esordito anche alcuni degli autori emergenti più interessanti), dall’altro la creatività massima dei suoi formati. Alternando in genere un’uscita in versione libro tradizionale con un’altra dall’aspetto imprevedibile, nel corso del tempo McSweeney’s ha prodotto (fra gli altri) numeri in forma di quotidiano, di contenitore di quaderni, di finto beauty-case, di quadro da appendere alla parete, di cubo tridimensionale e di pacco di posta (con racconti inseriti in finti cataloghi o dentro buste da lettera).
Motivi per adorarlo dunque da parte dei lettori ce ne sono parecchi.
Malgrado si definisca quadrimestrale, McSweeney’s col tempo ha abituato i suoi lettori a subire diversi ritardi. Chiunque si occupi di riviste indipendenti sa bene come sia difficile rispettare i tempi prefissati, soprattutto per una pubblicazione composta interamente di racconti e che quindi deve sottostare alle promesse di consegna (raramente mantenute) degli scrittori coinvolti. Lo slittamento di un paio di mesi o più presto diventa la norma. Eppure tre anni fa è successo qualcosa di più grave e misterioso. Dopo la pubblicazione del numero 48 (nell’agosto del 2014), la redazione ha cominciato ad anticipare che erano in già corso i lavori per il numero che avrebbe segnato una tappa storica per la rivista, il numero 50. Il comunicato non forniva molti elementi ma lasciava intuire che stavano pensando in grande. Per i lettori più fedeli, abituati a ogni forma di follia cartotecnica, era logico attendersi un’edizione spettacolare. Contestualmente la redazione annunciava anche i contenuti dell’imminente nuovo numero, il 49. Sarebbe stato un volume interamente dedicato al concetto di “cover”: gli scrittori coinvolti avrebbero riscritto a modo loro alcuni racconti celebri e a il numero avrebbe avuto l’aspetto di un vinile a 33 giri. Veniva addirittura anticipata la copertina del disco, nel tipico formato quadrato degli LP.
Poi, il nulla.
Di mesi ne passano quattro, sei, otto, intanto, per la prima volta nella storia della rivista, appare una raccolta fondi attraverso il portale Kickstarter per finanziarne la stampa. I lettori più affezionati partecipano felici, ma col passare dei mesi cominciano a lasciare commenti di protesta: l’attesa non è più di mesi, stanno passando anni. Nessuno si premura di dare risposte o spiegazioni.
Il numero, di solito acquistabile on line anche sui abituali canali di vendita libri tipo Amazon, passa da “prenotabile” a “non prenotabile al momento”.
Sul sito di McSweeney’s non compare una riga a riguardo. Facendo ricerche su Google non si trova praticamente niente. Un caso di omertà digitale senza precedenti.
Trascorrono quasi tre anni.
Ad aprile l’amico libraio dal quale solitamente acquisto il numero d’importazione mi chiama per avvisarmi che all’improvviso il volume risulta in consegna. Siamo entrambi perplessi, invece un paio di giorni dopo arriva per davvero.
Si tratta del tanto atteso numero 49, però ci sono dei però.
La copertina è rimasta invariata, il formato è quadrato, ma non ha le dimensioni di un LP quanto piuttosto quelle di un 45 giri. Nell’introduzione (firmata in forma generica da “I redattori”) si presentano con toni di grande entusiasmo i contenuti letterari del numero. Non un accenno al clamoroso ritardo nella pubblicazione, non un riferimento al cambio di formato e, soprattutto, nessuna anticipazione o promessa riguardo all’ormai prossimo numero 50.
Rimane dunque un mistero insondabile.
Perché tanto ritardo? Che è successo? Che sta succedendo? Ci sarà un numero 50? Ci stanno ancora lavorando? Se si, quando uscirà?
Domande che al momento restano prive di risposta. (Se qualcuno fra voi ha notizie al riguardo me le riferisca, grazie).
Detto tutto ciò, il numero 49, da un punto di vista strettamente letterario, è splendido. Il concetto di cover applicato alla narrativa produce esperimenti di alto livello e di grandissimo piacere. Lo scrittore Jess Walter trasforma il celebre racconto “I morti” di James Joyce nella caduta in disgrazia di uno sceneggiatore di serie televisive a Los Angeles, la scrittrice Lauren Groff racconta da un’altra prospettiva le protagoniste del racconto “Desideri” di Grace Paley e la celebre autrice Meg Wolizter riscrive il capolavoro “Un giorno ideale per i pescibanana” di J.D. Salinger dal punto di vista di una baby-sitter. E questi sono solo alcuni esempi.
Un numero memorabile, che se amate la letteratura e ve la cavate con l’inglese non dovreste proprio perdervi.
Anche perché chi ci assicura che ci sarà mai un prossimo numero?
martedì 10 gennaio 2017
UNA LETTURA NON COME TANTE
Spesso in questo blog ho recensito libri, ma stavolta non voglio raccomandare un romanzo quanto raccontare un’esperienza di lettura, perché a volte leggere non è un piacere, un intrattenimento o uno strumento di approfondimento, ma è qualcosa di più complesso e completo, che supera (e integra) questi diversi aspetti.
L’esperienza è quella che ho vissuto affrontando “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara (pubblicato da Sellerio con una magnifica traduzione di Luca Briasco).
Cominciamo dalla mole: il libro ha circa 1100 pagine. So che ci sono persone che amano particolarmente romanzi di ampie dimensioni, amano l’idea di “perdersi” dentro un libro. Io non sono fra queste. Quando un tomo è voluminoso tendo a metterlo in discussione: un libro di cinquecento pagine richiede un tempo che potrei dedicare a leggerne altri due o tre più brevi, quindi pondero molto accuratamente se ne valga la pena, e sono pronto ad abbandonarlo con maggiore rapidità se non mi convince. Figuriamoci quanto possa essere categorico con uno che supera le mille.
Di questo libro avevo sentito parlare più volte in alcuni blog letterari americani che seguo e mi aveva suscitato una certo interesse, ma non avevo idea che sarebbe stato tradotto in italiano finché non l’ho trovato esposto fra le novità in una libreria. Sono state proprio le sue notevole dimensioni a farmelo notare e anche a fungere da deterrente. L’ho sfogliato e poi riappoggiato. Troppo, troppo lungo, mi sono detto. Ma il germe della curiosità già era in circolo. Nei giorni seguenti ho cominciato a notare riferimenti al libro sui social e nei giornali, ma ad aiutarmi a superare in maniera definitiva le mie resistenze sono stati i giudizi entusiastici di alcuni amici scrittori (Federica Manzon e Giorgio Fontana avete delle responsabilità in questo).
Una mattina, complice un viaggio verso Roma, in una libreria della stazione l’ho comprato e l’ho iniziato subito in treno. Da lì non mi sono più fermato.
Di “Una vita come tante” (titolo paradossale, non c’è nulla di comune nelle vite di cui parla il libro, soprattutto in quella del protagonista) è magistrale l’andamento, il percorso che l’autrice ha tracciato per il lettore, calibrando in maniera chirurgica il tipo di emozioni e coinvolgimento in grado di creare. Hanya Yanagihara mi ha letteralmente rapito e condotto dove voleva lei, talvolta contro la mia volontà. Bravissima. Implacabile.
Cercherò ora di spiegar nel dettaglio come è avvenuto con l’impegno di non fare spoiler, se non sulla struttura del testo e anticipando quelle minime notizie sulla trama che già si trovano nelle varie recensioni che circolano.
Il romanzo inizia come la storia di quattro amici nella New York contemporanea. Nelle prime 150/200 pagine l’atmosfera e il tono sono dei tipici romanzi nordamericani contemporanei, la lettura è piacevole, la prosa dell’autrice è ricca ed elegante, anche se non particolarmente originale. Sino a qui sembra solo un bel libro.
A questo punto, quando le personalità dei quattro sono bene delineate e il rapporto fra loro assodato agli occhi del lettore, ecco che il focus del romanzo si sposta progressivamente verso uno dei personaggi. Gli altri sono e restano presenti per il resto del volume, ma solo adesso il lettore comprende chi sia il vero protagonista, ed è il più fragile e complesso fra i quattro, quello della cui infanzia e giovinezza conosciamo meno, anzi di cui conosciamo poco o nulla. Il ritratto che ne esce è estremamente affascinante, un personaggio misterioso, tormentato, ma che induce, tanto negli amici quanto nel lettore, un istinto di protezione e di grande affetto.
Ci avviciniamo al centro del volume, la lettura si fa sempre più appassionante, difficile abbandonare il testo. A livello personale, mi accorgevo durante il giorno che il pensiero ogni tanto tornava ai personaggi del romanzo, che pregustavo con piacere l’idea di tornare a casa e potermi immergere di nuovo in quel mondo, fra quegli amici. Ogni sera volevo andare avanti, ancora dieci pagine poi spengo, ancora cinque e basta, giuro.
Ed è a qui che Yanagihara, con una scelta sapiente e per certi versi perversa, sferza al lettore il colpo più duro. Tutte le domande che ci siamo posti sull’infanzia difficile del protagonista, tutti i dubbi, ci vengono svelati. E sono racconti terribili, di una crudeltà, di una violenza tale da lasciare senza fiato. Ora al piacere della lettura si è sostituito il dolore della lettura. Siamo giunti a un punto tale della storia che è impossibile interrompersi (ci siamo immersi fino al collo, non possiamo mollare qui, dobbiamo tenere duro e cercare di guadare questo fiume di sensazioni, dobbiamo trovare la forza di arrivare dall’altra parte, sperare di farcela), allo stesso tempo abbiamo la necessità di calibrare la sofferenza.
Ci sono stati giorni in cui mi è servito del coraggio per riprendere la lettura. Per stasera basta, mi dicevo, di più non riesco. Chiudevo il volume e magari prendevo qualcosa di più leggero, una rivista, la biografia di un cantante pop lasciata a metà, qualcosa che mi distraesse e mi conciliasse il sonno, alleviandomi dal peso di quelle brutali confessioni.
Dopo questa violenta e dettagliata parentesi l’autrice ci concede di nuovo respiro e dedica un’ampia fetta di narrazione alla maturità del protagonista. Il contesto è finalmente sereno, gli incubi del passato non sono e non possono essere sepolti ma l’amore e la protezione dell’ambiente familiare possono permettere un tentativo di assestamento. Il presente non fa più paura, una parvenza di felicità sembra possibile.
Il lettore tuttavia non può scrollarsi di dosso il trauma di ciò che è venuto a sapere sul conto del protagonista. Procede con cautela, temendo che nuove ferite siano in agguato. Ed è con questo stato d’animo di sottile apprensione che si giunge al finale del volume, sul quale chiaramente non dirò nulla.
Dopo averlo terminato ho subito cercato in rete notizie su Hanya Yanagihara e ho scoperto che è una reazione comune: in più di una recensione sulle riviste letterarie on line americane gli stessi critici confessavano di essere divorati dalla curiosità verso l’autrice di un’opera monumentale e anomala come questa. In realtà, non c’è molto da sapere. La Yanagihara, statunitense di origine hawaiane, è una giornalista di viaggi, ha già un romanzo alle spalle e ha scritto questo secondo nel giro di soli 18 mesi, lavorandoci la sera e nei weekend in quello che lei stessa ha definito “uno stato quasi febbrile”. Il suo modello erano i romanzi classici ottocenteschi, dei quali il testo riprende le dimensioni e il respiro. L’unica osservazione degna di nota riguarda il rapporto con il suo editor, che ha cercato più di una volta di spingerla a ridurre o a perlomeno a rendere meno cruente le scene di violenza, ma su questo la scrittrice è stata irremovibile perché le riteneva essenziali.
Ammetto di non aver mai letto nulla prima di altrettanto efficace nel rendere l’orrore fisico e psicologico degli abusi sui minori, nel mostrare l’ineluttabilità delle ferite emotive che ne conseguono.
A causa della sua mole (ha le dimensioni di un mattone e il peso supera il chilo), “Una vita come tante” rappresenta l’esempio ideale di romanzo da leggere in ebook, una soluzione infinitamente più maneggevole e pratica. Invece io ho preferito la concretezza delle pagine stampate: la fatica di portare con me in giro, in borsa, nello zaino, questo oggetto pesante era parte dell’impegno di questa lettura totalizzante e anomala, che mi ha richiesto sforzi, e rinunce, e impegno, e lunghe riflessioni.
Ho trovato il romanzo notevole, sebbene non privo di difetti, ma con una narrazione di queste dimensioni i giudizi non possono che essere complessi e stratificati, anche estremamente soggetti, tuttavia non importa: “Una vita come tante” mi ha ricordato che leggere è un’azione che comporta aspetti mentali, fisici, emotivi, filosofici. Erano anni che non provavo un’esperienza di lettura simile. Fosse anche solo per questo non posso che essere molto grato a Hanya Yanagihara. Erano 1100 pagine. Non mi sono mai pentito, una singola volta, di averle affrontate.
martedì 27 ottobre 2015
AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE - FRAMMENTI (4)
In una celebre canzone degli anni '80 l'artista multimediale Laurie Anderson cantava: "Language is a virus from outer space" (il linguaggio è un virus che arriva dallo spazio). La frase non è sua: è una citazione dal romanziere William S. Burroughs, uno dei padri della beat generation. Suona come un proclama visionario e fantascientifico, ma non è del tutto folle: ci sono ancora diversi punti oscuri nelle teorie del linguaggio e forse l’ipotesi del virus alieno potrebbe avere una sua remotissima plausibilità.
Dal mio punto d’osservazione posso affermare che la stessa teoria si può applicare alla lettura: leggere è un virus, che si propaga per contagio.
Se provate a fare due chiacchiere con gli insegnanti, soprattutto delle scuole primarie, vi racconteranno che la pratica della lettura è drammaticamente assente in molti alunni. I pochi che sono abituati provengono da famiglie con genitori di grado culturale elevato, che hanno educato i propri figli alla lettura. Del resto è difficile immaginare che un bambino venga spontaneamente attratto dai libri se non ha mai visto i propri genitori prenderne in mano uno.
Io so perfettamente di aver cominciato a leggere per pure ragioni imitative: vedevo i miei genitori farlo e ne ero invidioso. Non provengo da una famiglia agiata. Sia mio padre che mia madre hanno un'estrazione molto proletaria. Nessuno dei due ha proseguito gli studi dopo le scuole medie, che ai loro tempi venivano denominate "scuole di avviamento professionale", già alludendo nell'intestazione al loro ruolo di passaggio tra l’istruzione dell’obbligo e l’inserimento nel mondo del lavoro. Non poter proseguire gli studi ha rappresentato una frustrazione enorme, per mio padre in particolare. Si trattava di un'ingiustizia sociale che lui percepiva come ancora più intollerabile considerando che al paese l'unico ad aver potuto usufruire di un'educazione superiore della sua generazione era il figlio di un medico locale, il solo che ne avesse i mezzi finanziari. “Ed era il più stupido di tutti noi", non può fare a meno di ripetere ancora oggi quando tocca l’argomento.
Malgrado la scarsa istruzione (o forse proprio per questa bruciante assenza di) i miei genitori hanno da sempre mostrato una grande passione per la lettura, che hanno portato avanti secondo percorsi individuali: mia madre dedicandosi alla narrativa, mio padre alla saggistica storica.
Ricordo con assoluta precisione quando da bambino sedevo accanto a loro sul divano sfogliando il mio giornaletto a fumetti mentre loro erano immersi nella lettura di qualche volume. Capivo che stavamo compiendo lo stesso gesto, ma che la differenza stava nell’oggetto: io ancora non ero pronto per passare a quei tomi fitti di pagine e senza figura alcuna. Anelavo il momento in cui sarei passato al loro livello.
A quel punto il virus della lettura mi aveva già contagiato. Mi era bastato avere dei lettori per casa.
Ho avuto conferma che la lettura fosse un virus diversi anni dopo, quando sono stato assunto nel mio primo posto di lavoro, come assistente copywriter in una grossa agenzia pubblicitaria milanese.
Ogni giorno arrivavo in ufficio con un libro sottobraccio. E i volumi variavano continuamente, perché sono sempre stato un lettore vorace e veloce. La sola presenza di un testo in mano era sufficiente a creare una serie di reazioni concrete. Quasi immancabilmente in ascensore i colleghi, notando il volume in mano, mi chiedevano che libro fosse, di cosa parlasse, se ne consigliassi la lettura anche a loro. Mi trovavo già in un ambiente creativo e stimolante, i miei colleghi erano persone attente alla cultura, alla musica, al cinema (non poteva essere altrimenti, lavorando nell’ambito della comunicazione), anche loro erano lettori, ma forse non altrettanto entusiasti: vedere la velocità con cui divoravo un romanzo dopo l’altro ha stimolato il loro appetito.
La mia collega di scrivania me l'ha proprio dichiarato a chiare lettere: - Vedere tutti i libri che leggi mi ha fatto invidia -. Era una lettrice in latenza: le ho fatto tornare la passione per la lettura solo esibendo dei volumi.
A volte si veniva a creare una sorta di spontaneo club del libro: più persone si trovavano a leggere lo stesso romanzo in contemporanea quindi ci capitava di commentarlo alla macchinetta del caffè o in pausa pranzo. La possibilità di condividere pareri, di creare discussioni rendeva la lettura ancora più divertente.
L’aspetto interessante della faccenda è che non ho mai avuto intenzione di fare proselitismo: non volevo convertire nessuno, non ero mai io a proporre. Ero portatore del virus della lettura: si propagava per la mia presenza.
Nel corso del tempo ho imparato a riconoscere questa costante: la gente mi sa (e mi vede) legato al mondo dei libri, quindi mi prende a riferimento. Mi chiede consigli per le proprie letture, per i libri da regalare ai compleanni, per i titoli da portarsi in vacanza. Può succedermi nei posti di lavoro, con i nuovi gruppi di amici o (più di recente) sui social. Il mio entusiasmo per la lettura travalica e si propaga tutto intorno, molto spesso senza che io ne sia consapevole.
Sono convinto che ciascuno di noi sia un formidabile strumento di diffusione. È una vita che ne ho conferma.
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lunedì 12 ottobre 2015
AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE - FRAMMENTI (3)
Per me leggere a volte coincide con lavorare. Sono (e sono stato) consulente di diverse case editrici, quasi sempre in qualità di talent-scout: segnalo i romanzi inediti di autori esordienti che colpiscono la mia attenzione. In genere si tratta di giovani scrittori coi quali entro in contatto per il lavoro che porto avanti autonomamente per la mia rivista ‘tina.
La modalità con la quale leggo gli inediti è molto diversa da quella che applico per le letture personali. Con un esordiente divento un professionista: verifico che l’attacco del romanzo sia convincente, che non ci siano errori di ortografia o grammatica, che i dialoghi siano realistici, che le descrizioni siano funzionali al testo, che la prosa sia fluida, e così via. Con un romanzo pubblicato invece mi abbandono alla lettura perché sono consapevole che qualcun altro abbia già fatto questo lavoro al posto mio. Ci sono già state discussioni, revisioni, correzioni di bozze. Il libro è pronto per essere consumato. C’è una notevole differenza.
Spesso la gente non lo capisce. A volte mi consegnano un dattiloscritto dicendo cose tipo: “Tanto è breve, lo leggi in tre ore”, equiparando di fatto il ritmo di lettura di un libro qualsiasi al loro inedito, mentre per me non è, e non potrà mai essere, lo stesso. Con un’ingenuità sconfortante mettono sullo stesso piano una lettura di piacere con una di valutazione. In verità penso sia più sensato paragonare un inedito a un testo d’esame: mentre lo leggo devo segnarmi degli appunti, segnalare gli eventuali errori, formarmi un giudizio, motivarlo, più o meno come quando all’università si stava settimane su un testo, rileggendolo, sottolineandolo, per poi essere pronti al momento dell’interrogazione.
Va anche detto che spesso non arrivo neppure a questo stadio impegnativo del lavoro. Ormai ho sviluppato una sorta di sensibilità istintiva: mi bastano poche righe per sapere se il testo mi convince o meno. Talvolta la repulsione è immediata: refusi nell’incipit, assenza totale di stile, banalità di contenuti, un tono forzatamente letterario... sono tutti elementi che accendono un immediato campanello d’allarme. Capisco che non è di qualità sufficiente e passo oltre. Il che avviene almeno nella metà dei casi del materiale che ricevo. (Il livello standard è bassissimo, chi non fa questo lavoro non ci crede mai, ma è tristemente vero).
Il caso peggiore, che purtroppo non è raro, è quando mi trovo a che fare con testi scritti in maniera corretta, magari con un buon attacco, una lingua scorrevole, un’idea di storia, ma che nel corso della lettura si rivelano di scarso interesse. Compitini ben svolti che non dicono niente. In quel caso è molto più difficile sia rigettare il testo, che motivarne il rifiuto. Capisci l’impegno e la serietà che stanno dietro il lavoro, ma purtroppo non sono sufficienti. Dover dire a qualcuno che non ha talento non è semplice, ma ogni tanto va fatto. Quando qualcuno mi chiede “Dimmi sinceramente cosa ne pensi” non posso fare a meno di prestare fede all’avverbio contenuto nella richiesta. Mi sembra la cosa più onesta da fare.
Resta l’eccezione miracolosa del dattiloscritto che supera tutte queste fasi e riesce a conquistarmi. In quel caso il segnale più evidente della sua forza sta proprio nella modalità di lettura che applico: quando mi rendo conto che ho voglia di proseguire quel testo anche la sera prima di dormire, o di portarmelo dietro in metro la mattina, o di riprenderlo durante una pausa, in sintesi quando capisco che la barriera netta fra la lettura di piacere e quella professionale ha assunto contorni più fragili e che quello che ho fra le mani (che necessita interventi di editing, revisioni, limature) è già comunque un libro vero.
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venerdì 9 ottobre 2015
AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE - FRAMMENTI (2)
Mi capita quasi sempre quando vado ospite a casa di qualcuno che ha molti libri di invidiare la sua biblioteca. In un primo momento provo una sensazione di serenità (l’essere circondato da tanti libri mi rassicura come il valium), poi però scatta la tentazione di spulciare fra i volumi, prenderne in mano qualcuno, leggere righe a caso. Mi sembra che le case degli altri siano piene di libri che dovrei avere. Non importa quanti ne conservi io a casa, e non faccio alcuna comparazione diretta (la tua biblioteca è meglio della mia), solo che vedere sugli scaffali dei libri acquistati (quindi filtrati dalla sensibilità del proprietario, che quei volumi li ha scelti, comprati, portati a casa e letti) improvvisamente attribuisce a quei testi un nuovo valore. Mi sembrano importanti, necessari. Perché li ho ignorati finora? Mi scopro fare liste mentali per acquisti futuri, a volte arrivo a segnarmeli su un quadernino o sul cellulare. Mi dico, domani prima di ripartire vado in libreria e li compro.
Talvolta lo faccio sul serio, compro quei libri che ho solo sfogliato la sera prima. In altri casi la sensazione si rivela legata al momento: il giorno seguente, lasciata la casa, salutati gli amici, tornato alla mia vita regolare, ho perso parte di quell’impeto. Quei libri non mi sembrano più così necessari, prevale la parte razionale di me, che mi ricorda le decine di volumi che stazionano sui miei scaffali in attesa di essere letti, senza che sia il caso di aggiungerne altri.
Il punto non è questo. Non importa in fondo se quei libri li compro o no. La cosa fondamentale mi sembra invece la relazione che scaturisce: entrando in contatto con quelle biblioteche è come se i libri mi parlassero e io sia chiamato comunque a rispondere. Ci siamo parlati.
giovedì 1 ottobre 2015
AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE - FRAMMENTI (1)
Di recente ho installato una piccola libreria accanto al letto. Quella stessa sera, prima di coricarmi ho osservato per qualche attimo i volumi esposti sugli scaffali e ho provato una sensazione profonda di gioia e benessere. Mi sono chiesto perché, dal momento che ho comunque la casa piena di volumi, e ho capito solo in quel momento che era la prima volta nella mia vita che avevo una libreria nel luogo dove dormivo, in una collocazione talmente ravvicinata che era sufficiente allungare una mano per raggiungere un testo e cominciare a leggerlo.
Naturalmente non era la prima volta che avevo dei libri accanto al letto (i miei comodini sono sempre stati sommersi da pile di romanzi in corso - o in attesa - di lettura), ma una libreria vera e propria non c’era mai stata. Ne avevo certamente una da bambino nella cameretta che condividevo con mia sorella, ma all’epoca ospitava un insieme confuso di testi scolastici, fumetti, letture per ragazzi, giornalini, era più che altro uno spazio dove appoggiare cose. Nei bilocali che ho abitato da adulto, per caso o per disposizioni precedenti, le stanze da letto ospitavano gli armadi dei vestiti, le librerie stavano sempre nell’altra stanza, quella col televisore, il tavolo e un divanetto.
Avere ora i libri lì accanto, ordinati, in attesa di lettura, mi ha procurato una sensazione di armonia, come una scoperta tardiva, una conquista della maturità. Che questa collocazione si sarebbe rivelata benefica per lo spirito io non l’avevo immaginato, l’ho capito solo quando, per caso, l’ho sperimentata.
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mercoledì 30 settembre 2015
JOHNNY BE GOOD (TO MY iPHONE)
Durante lo scorso weekend ho fatto una delle esperienze più genuinamente milanesi degli ultimi tempi: sono andato da Johnny in Paolo Sarpi.
Da alcune settimane il mio iPhone mostrava preoccupanti segnali di insubordinazione: la tastiera smetteva improvvisamente di funzionare, per poi ripartire di colpo con una serie di vcfgjycuvtyò@@@%opuoòtzrxuò senza senso; il tasto centrale non rispondeva più, se non dopo insistite pressioni; la suoneria decideva autonomamente di quali sms segnalarmi l’arrivo, tacendone la maggior parte. (Whitney) Houston abbiamo un problema.
Come sempre in questi casi la mia filosofia è: ignora questi infausti segnali nell’attesa che tutto si sistemi da solo. Sarebbe interessante analizzare come mai questo atteggiamento non si sia mai rivelato efficace in tutta la mia esperienza terrena ma io continui a restarvi aggrappato tenacemente. Lasceremo tuttavia questo argomento per futuri approfondimenti. L’esito fallimentare della mia insensata filosofia postivista si è di nuovo dimostrato in tutta la sua lampante chiarezza sabato pomeriggio intorno alle 17.30 quando l’apparecchio ha cominciato a squillare e ho scoperto di non essere più in grado di rispondere: il touch-screen aveva perso del tutto la sensibilità e ogni mio tentativo di accedere alla chiamata (o di compiere qualunque altra operazione, inclusa quella di provare a spegnerlo) si rivelava nullo.
Dopo alcuni istanti di sobria e pacata analisi del fenomeno (“Cazzo, ma che sfiga, mi si rompe proprio di sabato sera, dove vado adesso, CAZZO, COSA FACCIO?, AIUTO, CAZZO CAZZO CAZZZZZZOOOOOO!”), mi è tornata in mente la formula magica che da settimane sentivo ripetere da amici e conoscenti. Ogni volta che mi capitava di avere problemi con lo smartphone in presenza di altri, c’era sempre qualcuno che suggeriva: “Portalo da Johnny”. Per i milanesi quello di Johnny il cinese è ormai un nome noto e familiare, come la Madonnina, i panzerotti di Luini o il bar della signora Lina, un elemento della mitologia cittadina che si tende a dare per acquisito con il resto degli abitanti. Il fatto che Johnny sia tutto fuorché un nome cinese non sembra aver mai turbato nessuno: è chiaro che si tratti di un nome d’arte, assurto ormai allo status di marchio. Infatti anch’io avevo sentito nominare svariate volte Johnny (Wired gli aveva addirittura dedicato un servizio, giusto per indicare il livello di stardom di cui stiamo parlando), ma sino a ora non avevo mai avuto bisogno dei suoi servizi, quindi ignoravo l’ubicazione precisa o gli orari di lavoro. Un’amica mi aveva dato il suo indirizzo via sms, ma appunto in questo momento anche quella informazione mi era irraggiungibile. Disperato, ho acceso il computer e ho provato a digitare su Google “Johnny Paolo Sarpi” (una chiave di ricerca che mi appariva di una vaghezza assurda quanto “Samantha Los Angeles”) e invece, con mio totale sbalordimento, a parte un hotel omonimo, le altre prime reference indicavano il negozio di riparazioni. Una riportava anche gli orari di servizio: “Oggi aperto fino alle 20.30”. Nessuna proposta erotica sussurrata in quel momento mi sarebbe parsa più eccitante di questa prospettiva: aperto fino alle 20.30 di sabato!
Mi sono infilato in metrò per fare il più velocemente possibile: dalla fermata di Moscova mi sono fatto a piedi il quarto d’ora che mi separava da via Giordano Bruno, sede della “D.T.M. riparazioni”, il cui logo ufficiale nell’insegna luminosa era sormontato dalla ben più chiara e riconoscibile indicazione “JOHNNY”.
Mettere piede nel negozio significa precipitare in una scena di Blade Runner con l’effetto 3d più stupefacente mai sperimentato, poiché il luogo è reale: uno stanzino rettangolare e profondo, i cui muri avrebbero un disperato bisogno di ritinteggiatura, con una serie di polverose vetrinette alle pareti che mostrano accessori di telefonia che paiono gettati lì più alla rinfusa che allo scopo di essere esposti. Del resto nessuno dei presenti ci getta neanche una distratta occhiata. L’attenzione di tutti è concentrata verso il bancone dove due cinesi (uno più giovane, sui 30 anni, e uno più maturo, sui 40, gradi di anzianità orientativi poiché l’attribuzione di età agli individui asiatici resta per noi occidentali una sorta di limite cognitivo insormontabile) si occupano con manifesta professionalità di accogliere le richieste dei presenti. Alle loro spalle si erge una distesa di reperti informatici in vari gradi di abbandono: monitor spenti, tastiere sventrate, cellulari impilati uno sull’altro, cavi elettrici, tablet coi vetri infranti, custodie di ogni dimensione, portatili in ricarica, hard disk esterni che lampeggiano insistenti. L’impressione che se ne ricava, va detto, non è affatto rassicurante. Più che un negozio sembra l’angolo di un magazzino, e del magazzino assomiglia allo stanzino degli scarti. Ma non facciamoci influenzare dalle apparenze.
Prima di me ci sono tre persone. Nell’attesa ne giungono altrettante alle mie spalle. Lo sguardo sul volto di ciascuno è: allucinato. Hanno tutti (me compreso, ovvio) l’espressione di chi sta affrontando il disastro: l’orlo dell’abisso sul quale siamo affacciati è troppo spaventoso per guardare in basso e l’unico appiglio al quale possiamo tendere, ansiosi, tremanti, spauriti, è rappresentato dai due orientali dietro il banco.
A un certo punto ho l’impressione che l’uomo immediatamente prima di me stia per mettersi a piangere: racconta che il telefono si è spento all’improvviso (“Si è bagnato” confesserà poco più tardi, vergognandosene, ma ammettendo finalmente l’orrida colpa) e al suo interno conserva ogni dato sensibile necessario per la sua attività di libero professionista (“Tutti i miei appuntamenti di lunedì!” aggiunge, con una nota di disperazione). Il cinese più maturo, che l’ha preso in carico, è del tutto indifferente al tenore emotivo della conversazione. Con un cacciavite microscopico apre il retro del suo Samsung, lo osserva da vicino con attenzione e al termine, come in un antico rito sciamanico, emette il suo verdetto: “Asciughiamo, faccio backup tutti i dati, sostituzione battelia, tolna tla una ora, ottanta eulo”. “Tra un’ora?” chiede l’uomo, incredulo. Il cinese annuisce. Per un secondo temo che l’uomo stia per prendergli la testa fra le mani e cominciare a limonarlo. Non lo fa, ma è quello che il suo sguardo lascia chiaramente trasparire: il sollievo infinito di chi vede di nuovo salva la propria vita e non sa come dimostrare l’esplosione di gratitudine che sgorga dal suo cuore. (L’amica che mi aveva fornito l’indirizzo di Johnny mi aveva anche confessato che nel suo caso si trattava di un portatile contenente il lavoro di un intero anno, e quando il cinese le aveva annunciato di essere in grado di ripararlo e recuperare i dati al costo di 180 euro, lei si era messa a urlare “Ma io te ne dò anche mille!”, facendo la figura di una pazza e vergognandosene molto nei giorni a venire).
Dopo il caso del telefono salvato dalle acque, il mio appare come ordinaria routine, solo più numerosi gli interventi: sostituzione batteria, tasto centrale, schermo e verifica dei collegamenti. Costo totale 130 euro, anche se l’operazione richiede un tempo maggiore. “Puoi venile domani mattina?”. Cioè, Johnny, o emissario di Johnny che tu sia, mi stai dicendo che siete aperti anche di domenica? Non formulo la domanda perché la risposta è già implicita nella sua proposta. Temevo di restare privo di cellulare per giorni e lo sarò solo per una notte. “Certo che posso”. Lui prende i miei dati e li trascrive su un adesivo che applica sul retro del mio apparecchio. Poi porta il mio telefono, insieme ad altri che si erano accumulati in questa manciata di minuti, in una stanza situata sopra il negozio. L’immagine inquietante che si forma nella mia mente di una camerata-lager con una schiera di cinesi ridotti a schiavitù e costretti a riparazioni digitali senza sosta, attuando un meccanismo di sfruttamento che permette agevolmente le aperture fino a tardi tutti i giorni della settimana senza interruzione, è subito cancellata dall’egoistica e occidentale soddisfazione al pensiero che domattina avrò di nuovo il mio apparecchio funzionante. Sfreccio leggiadro verso la cena che mi attende, con l’inedita e quasi eccitante consapevolezza di essere isolato nelle comunicazioni per circa quattordici ore.
La mattina seguente vado a ritirare l’apparecchio. Funziona tutto all’apparenza. Pago e torno a casa. Un paio d’ore dopo mi accorgo che persiste un problema grave: la parte destra del telefono è ancora priva di sensibilità touch-screen. La ricevuta che Johnny mi ha fornito reca la scritta “Certificato di garanzia Johnny”. Ne approfitto immediatamente e torno. Un altro cinese (stavolta più giovane e con una pronuncia italiana molto migliore, chiaramente di seconda generazione e forse, a giudicare dalla foto di Wired, proprio Johnny in persona) si scusa per l’inconveniente e mi chiede di ripassare più tardi. Quando mi ripresento il problema non è risolto: persiste tale e quale. Il ragazzo sembra seccato per questa mancanza di professionalità verso il cliente. “Aspetta qui” dice e va lui di persona a occuparsene, uscendo da una porta sul retro. Rientra poco dopo annunciando: “Sostituiamo un altro schermo, torna tra mezz’ora, ti assicuro che sarà a posto”. In effetti avviene proprio così. Al ritorno l’iPhone ha riguadagnato tutte le sue funzioni e non presenta più difficoltà di utilizzo.
Morale: il tutto mi è costato tre viaggi (abito dall’altra parte della città) e la perdita di una giornata intera fra una sostituzione e l’altra (durante un we in cui i normali negozi di riparazioni sono chiusi), ma alla fine Johnny mantiene fede al suo mito archetipo.
Adesso mando sms, navigo in rete e rispondo alla chiamate in scioltezza. E mi sento un pochino più milanese di prima.
lunedì 14 settembre 2015
LA PAROLA AI LIBRAI
L’editoria è in crisi. Il mercato del libro sta attraversando una fase delicata e incerta di trasformazione: l’avvento del digitale, le piattaforme per l’autopubblicazione, la fusione dei grandi gruppi editoriali, il crollo delle vendite, i social network che sottraggono tempo alla lettura tradizionale. In questo confuso scenario, nel quale anche le previsioni a breve termine sono difficili da fare, molte piccole case editrici sono costrette a chiudere e ancora di più sono le librerie indipendenti che abbassano la saracinesca. Ma quelle poche che resistono, come riescono a farlo? In anni di attività come scrittore, attraverso presentazioni, incontri, festival e manifestazioni, sono entrato in contatto con numerosi librai e spesso sono rimasto affascinato dalla loro passione, dalla loro preparazione e dall’entusiasmo col quale svolgono il loro lavoro. Sono loro che reggono in piedi, senza alcuna agevolazione e spesso senza nessuna riconoscenza, un tessuto culturale che permette a questo paese di essere ancora vivace e reattivo, anche in zone dove sembrerebbe impossibile esserlo. Così mi sono chiesto, ma loro come stanno vivendo questo momento? Cosa pensano? Come percepiscono il loro ruolo? Che difficoltà incontrano e che soddisfazioni provano? Ho stilato una serie di domande e le ho inviate ad alcuni amici sparsi per la penisola. A partire da oggi comincio a pubblicare le loro risposte, via via che mi giungono.
Trovate la prima qui.
(PS: Se siete anche voi dei librai e volete dire la vostra, fatemelo sapere).
lunedì 3 agosto 2015
GLI ANZIANI IN BIBLIOTECA
Sono incapaci di modificare il tono di voce. Quando parlano fra loro lo fanno con lo stesso volume che userebbero al bar o per strada.
Sembrano tutti inconsapevoli di recare un cellulare con sé.
Quando il cellulare suona (assordante, nel silenzio immacolato) impiegano diversi secondi prima di capire che è proprio il loro che sta squillando.
Quando lo capiscono (al sesto, settimo squillo), invariabilmente, rispondono.
Sembrano ignorare la possibilità di uscire dalla biblioteca per continuare la conversazione.
Sembrano indifferenti all’idea che chiunque venga a conoscenza dei fatti loro.
Sembrano inconsapevoli dell’ipotesi di disturbare.
Quando finiscono, rimettono l’apparecchio in tasca senza silenziarlo per il rischio di chiamate successive.
Sembrano francamente ignorare l’esistenza della modalità di silenziatore.
Tutti.
giovedì 28 maggio 2015
AGGIORNAMENTI SUL MIO BARBIERE
Qualche mese fa avevo pubblicato una piccola epica via Twitter sul mio barbiere, che aveva incontrato un discreto successo. Mi sembra giusto tornare ogni tanto ad aggiornare gli interessati sugli sviluppi della faccenda, così ieri ho pubblicato nuovi tweet sull’argomento, che ho raccolto qui di seguito per i lettori del blog.
Il mio barbiere, se mi irrita col rasoio, si giustifica dicendo: “Chi bello vuole apparire un po’ deve soffrire”.
Il mio barbiere quando parla di Viagra non usa mail il suo nome commerciale ma il gentile eufemismo “la pillolina blu”.
Il mio barbiere dice che, anche se sei anziano, “la pillolina blu” non serve a niente, basta che c’è la passione.
Il mio barbiere ha circa 40 anni e riporta questa affermazione come verità perché “l’hanno detto a Porta a porta”.
Il mio barbiere è andato con la moglie in un locale a Vigevano, ma poiché era chiuso hanno deciso di visitare la città.
Il mio barbiere dice che la piazza di Vigevano è bellissima.
Il mio barbiere dice che “nei nostri dintorni ci sono delle cose bellissime e la gente non lo sa neanche”.
Il mio barbiere mi ha fatto ascoltare una compilation di musica trance che gli ha registrato un suo cliente.
Il mio barbiere mi ha chiesto: “Sai chi ha inventato la musica trance?”, io ho ammesso di non saperlo e lui: “Gli indiani d’America”.
Non so dove il mio barbiere prenda queste informazioni prive di fondamento.
Il mio barbiere dice che dal pasticcere compra la torta “Sciaccher”, che è buonissima.
giovedì 30 gennaio 2014
EDIZIONI FAI-DA-TE
Ieri ho pubblicato sul quotidiano on line Linkiesta una riflessione sui rischi del self-publishing. La riporto anche qui di seguito.
IL RISCHIO DI DIVENTARE EDITORI DI SÉ STESSI
Da tempo mi occupo di esordienti, in qualità di consulente di case editrici e curatore di riviste letterarie, e come tutti seguo con interesse il dibattito sull’evoluzione dell’editoria chiamata a confrontarsi con le nuove prospettive aperte dal digitale.
Di recente mi è capitato di leggere la significativa testimonianza della blogger Loredana De Michelis, che riesce ad evidenziare in maniera sintetica ed efficace i limiti che il sistema attuale del mercato dell’ebook comporta (classifiche di vendita manipolabili, recensioni fasulle, trucchetti di autopromozione), ma allo stesso tempo bene illustra sia i percorsi che portano un esordiente a scegliere la strada della pubblicazione in digitale, che gli errori che è portato a fare (refusi, scelta casuale della copertina). Interessante è anche la disinvoltura che Loredana evidenzia nella scelta dei materiali da mettere sul mercato (“Scovo una raccolta di lettere che avevo scritto da Londra... Ecco un altro possibile ebook già pronto”): un approccio nei confronti del concetto di “pubblicazione” che fino a qualche tempo fa sarebbe stato impensabile.
Questo articolo mi ha fatto riflettere sulla mia esperienza personale di scouting e su alcuni eventi recenti. Già diverse volte mi è capitato un episodio di questo genere: qualcuno mi manda un testo in lettura, io gli scrivo facendogli le mie osservazioni e come risposta ricevo una mail sulla falsariga di: “Grazie, ma intanto ho deciso di farlo uscire in e-book. Non avevo voglia di aspettare troppo a lungo le risposte degli editori”. In alcuni casi questo scambio avviene nel giro di qualche settimana: l’autore in questione non ha avuto la pazienza di aspettare neanche un mese.
A me sembra che una scelta come l’autopubblicazione in ebook per un esordiente comporti due conseguenze, diciamo una ‘esterna’ e una ‘interna’. Quella esterna è l’ovvio effetto da intasamento anonimo, l’ennesimo e-book di sconosciuto a 0.99 euro in una marea di prodotti simili indistinguibili fra loro. Ma è sull’effetto interiore che vorrei concentrarmi, quello che riguarda la relazione fra l’autore e la propria opera. Una volta che il testo è stato licenziato, che l’e-book è consegnato nelle mani del pubblico (malgrado poi, nella quasi totalità dei casi, si rivelerà essere composto da qualche decina di persone, conoscenti diretti dello scrittore), la sensazione sarà quella di aver concluso il lavoro e di essere pronti per mettersi all’opera sul romanzo successivo. Il libro è pubblicato, discorso chiuso.
Quello che avveniva prima invece, nel tentativo di ottenere la pubblicazione cartacea tramite un editore, era fatto sì di lunghi mesi di attesa, di frustrazione, di invii a vuoto, ma anche, in diversi casi, di allacciamento di rapporti, di letture critiche, di rifiuti e stroncature, ma anche di osservazioni sul testo, di suggerimenti, di evidenziazione dei punti deboli, di giudizi, forse severi ma professionali. Spesso l’esordiente, sulla base di queste reazioni, era portato a rivedere il suo lavoro, a riscriverlo, a operare dei cambiamenti, anche radicali se necessario, a lavorare a una nuova stesura, oppure a rinunciarvi del tutto, scegliendo di iniziare un nuovo progetto sulla base dell’esperienza fornitagli dagli errori precedenti.
In sintesi, a me pare che una grave conseguenza dell’immediata uscita in e-book per un principiante sia quella di sottrarsi al rapporto dialogico che la strada tradizionale comporta. Trasformarsi in editori di se stessi significa saltare una serie di passaggi, alcuni anche molto frustranti, questo è fuori dubbio. Ma è davvero salutare evitarli?
Concedetemi delle metafore arbitrarie: lo sportivo che rinuncia agli allenamenti per non dover sopportare i rimproveri del coach, il musicista che salta la gavetta per non subire l’umiliazione di suonare in un bar dove nessuno dei presenti gli presta attenzione, saranno poi in grado di affrontare l’arena con le solide basi che richiede?
Mi spingo ancora oltre: prima, la fame di giudizi che aveva un autore in erba sul proprio manoscritto era tale da spingerlo a sottoporlo alla lettura di amici, insegnanti, fidanzate, colleghi. Anche questa era una minima forma di palestra. Oggi quegli stessi interlocutori sono i suoi lettori potenziali, si rivolge a loro dopo aver pubblicato il testo in forma elettronica, li invita ad acquistarlo. A loro volta questi non gli faranno osservazioni sul testo a cui sta lavorando (e che potrebbe essere spinto a modificare, perfezionare, stravolgere), gli faranno critiche su un’opera a tutti gli effetti conclusa. Il cambio di prospettiva è notevole, direi radicale.
Prevengo in parte la valanga di critiche che mi verrà rivolta, prima fra tutte farmi notare come nella maggior parte dei casi il dialogo fra autore ed editore a cui faccio riferimento non esista, la protesta di chi si dichiara disposto alla messa in discussione del proprio lavoro ma si trova ad affrontare invece la completa indifferenza. Posto che, in un momento storico nel quale proliferano riviste on line, blog letterari, medie, piccole, microscopiche case editrici, forum di discussione e così via, la mancanza assoluta di responso sui testi mi appare sempre più difficile da credere (in altre parole, siamo sicuri che questi autori abbiano idea di dove andare a cercare un confronto?), quello che voglio mettere in discussione è il processo logico che ne scaturisce: nessuno mi risponde, quindi mi pubblico da solo. A me sembra che in questo passaggio di democratizzazione assoluta (lo scavalcamento del rapporto con un editore consolidato, tutti che diventano editori di se stessi) sia la qualità del testo a farne le spese: non esistono più standard minimi, esiste solo il desiderio di essere sul mercato.
venerdì 17 gennaio 2014
OSSERVAZIONI DI UN MILANESE (1)
Ogni tanto mi capita di prendere l’autobus 73X, la linea diretta che collega il centro di Milano con l’aeroporto di Linate con una sola fermata intermedia. Quasi sempre assisto alla stessa scena: turisti carichi di valigie che arrivano un po’ spaesati chiedendo all’autista, in inglese, notizie sull’acquisto del biglietto. In tutti i casi in cui questo avviene l’autista in questione non parla la lingua, si limita quindi a ripetere “Ticket” e a indicare in modo vago verso i portici di Corso Europa accanto al capolinea del bus. Quello che intende far capire con quel gesto è che il biglietto si acquista all’edicola, che però è situata in una piazzetta a una cinquantina di metri dalla fermata e che da quella posizione risulta invisibile. A volte la questione viene risolta da altri viaggiatori che intervengono e fanno da interpreti, come è capitato anche a me di fare, altrimenti il risultato è sempre il medesimo: il turista confuso che cerca di capire cosa gli indichi quel braccio puntato e che comincia ad aggirarsi sotto i portici con l’ansia di riuscire a trovare il senso di questa assurda caccia al tesoro prima che il mezzo riparta. In genere non ce la fanno mai: fra il tempo di individuare l’edicola e quello per tornare indietro il bus è partito.
Durante le feste ho assistito a un’altra scena, questa volta in tram. Una coppia di pensionati tedeschi che dovevano aver fatto confusione coi biglietti e viaggiavano con un tagliando scaduto anche se avevano nel portafoglio altri biglietti ancora da timbrare che mostravano al controllore. I due, che parlavano un discreto inglese, cercavano di spiegare che dovevano aver sbagliato nel passaggio fra metropolitana e tram. Il controllore, una donna affabile che ha capito la situazione, voleva comunicare loro che avrebbero fatto meglio ad acquistare un biglietto giornaliero, così da timbrarlo una sola volta e non pensarci più. Dava loro questa informazione inutilmente in italiano, poi cercava di condensarla nel maccheronico tentativo di: “Ticket today”. L’espressione che stava cercando era “Daily ticket”, ma ignorandola ripeteva l’insensata formula di “Ticket today” nella speranza che producesse qualche senso mentre i due pensionati scuotevano la testa confusi.
Non si può pretendere che gli impiegati delle linee pubbliche si mettano a studiare una seconda lingua, ma quando avvengono questi fatti io mi chiedo sempre la stessa cosa: non sarebbe meglio per tutti se quattro nozioni basic gli fossero impartite? Lo dico anche nel loro interesse, per evitare questi momenti insensati e imbarazzanti in cui la comunicazione risulta impossibile e che si risolverebbero subito ripetendo una o due semplici formule. All’ATM nessuno ci ha mai pensato? In una città come Milano invasa dagli stranieri, anche solo per la faccenda moda?
Mi chiedo anche come possano gli stessi conducenti e controllori a non sentirne l’esigenza. Se io fossi un autista del 73X alla centocinquantesima volta che un turista mi chiedesse in inglese dove acquistare un biglietto imparerei la risposta a memoria anche solo per esasperazione, per togliermi questo fastidio. Questi guidatori avranno dei figli che studiano inglese a scuola? Non gli è mai venuto l’istinto di chiedergli: - Come cazzo si dice “All’edicola all’angolo”? -. Perché io al loro posto davvero non potrei farne a meno.
lunedì 13 gennaio 2014
PROVE DI VITA
Da qualche settimana è on line un interessante progetto lanciato dalla scrittrice Violetta Bellocchio. Si intitola “Abbiamo le prove” e le ho fatto una breve intervista per presentarlo ai lettori di questo blog.
Cos’è “Abbiamo le prove”? Come lo racconteresti a chi non lo conosce?
È una piccola rivista online che pubblica solo storie vere, scritte dalle donne a cui sono successe: il genere si può chiamare "nonfiction personale".
A me oggi (gennaio 2014) piace pensarlo come un disco degli One Direction dove metà delle canzoni sono ambientate in una corsia di pronto soccorso alle tre di mattina.
Perché questo titolo?
Alla fine a me faceva meno schifo di altri possibili candidati ("Storia Vera", "Quella volta che..."): tieni conto che il nostro primo template "di servizio" - quello che usavo per verificare come si vedevano i pezzi, le foto eccetera - per due settimane era una sequela ininterrotta di GIF animate (ce n'era una di James Franco in Spring Breakers che infesta ancora i miei sogni), per cui il mio concetto di "fare meno schifo rispetto a..." è piuttosto personale.
Perché hai deciso di avere solo collaboratrici donne?
Volevo vedere se era impossibile mettere su una cosa di donne che non gravitasse intorno ai BAMBINI, alle unghie e ai consumi considerati "tipicamente femminili". No, non è impossibile.
È fattibile e divertente.
Aggiungo questo: cercare SOLO autrici donne mi ha portato (e mi porta) a leggere più persone, a mettermi in contatto con persone che non conoscevo direttamente (come Nadia Terranova, che oltre a scrivere legge con me); forse potrebbe aver convinto alcune persone a farsi avanti, proprio perché da noi non scrivevano i soliti dieci opinionisti maschi, ma questo ce lo dovrebbero confermare le autrici. È solo una mia impressione non provata da nulla, insomma.
Cosa significa oggi aprire una rivista on line?
Scoprire che di persone di talento in giro ce ne sono, e scoprire che parecchie di loro sono in grado di mantenere sempre una soglia minima di civiltà. È molto piacevole. Per me lo è, almeno.
“Abbiamo le prove” pubblica una nuova testimonianza ogni giorno. Mi sembra una periodicità molto impegnativa. Riuscite a tenere fede a questa scadenza quotidiana o è difficile?
Due cose: uno, io non ho figli, quindi il tempo lo trovo, due, sono una fortissima sostenitrice del "cassetto profondo", per cui la cosa migliore è sempre avere una scorta di storie nuove (e preparare un calendario di massima con qualche settimana di anticipo).
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