Scrivere l’ennesima recensione del libro di Luciano Funetta non avrebbe molto senso, dopo che il suo “Dalle rovine” è stato giudicato in maniera pressoché unanime l’esordio più significativo del 2015, citato in quasi tutte le classifiche dei romanzi dell’anno secondo critici e riviste letterarie, e accolto da una rassegna stampa impressionante (a questo link trovate oltre 60 (!!) recensioni, più o meno tutte entusiastiche). Allo stesso tempo, una rubrica che si occupa di esordi non può ignorare la maggiore rivelazione di questi ultimi anni.
Giunti a questo punto ritengo dunque più interessante analizzare la vicenda editoriale di questo libro, più che i suoi contenuti.
In breve, la storia di “Dalle rovine” ruota attorno alla figura di uomo del quale si conosce solo il cognome, Rivera, che vive nell’immaginaria città di Fortezza, in un appartamento che condivide con alcune decine di serpenti. Rivera non solo alleva e accudisce i rettili, ma ha con loro un rapporto simbiotico che sfocia nel carnale. Grazie a questa sua caratteristica entra in contatto con il mondo del cinema erotico e da quel momento la sua vita ne viene travolta. Di più non si può dire, anche perché si tratta di uno di quei romanzi nel quale sono l’atmosfera e il tono apocalittico a rendere unico il senso della narrazione, al di là degli sviluppi della trama.
Il libro è stato pubblicato (grazie all’intuizione del curatore Vanni Santoni) dalla piccola casa editrice Tunuè, un nome che forse suonerà nuovo alle orecchie di molti lettori. Infatti sino a due anni fa Tunuè si occupava di fumetti e da poco ha deciso di aprire una collana dedicata alla narrativa. Sorprende dunque che proprio un marchio indipendente e nuovo alla narrativa abbia scelto di pubblicare il titolo che si sta rivelando il più importante esordio degli ultimi tempi (il volume ha già avuto diverse ristampe ed è finito dritto fra i 12 finalisti al premio Strega).
Pare che il dattiloscritto abbia impiegato quasi due anni a trovare una collocazione editoriale, subendo continui rifiuti da tutte le case editrici principali e secondarie. Il testo veniva considerato troppo anomalo, fuori dai canoni, estremo. Il che dovrebbe probabilmente far riflettere su come l’editoria stia ragionando in un momento delicato e di crisi come quello attuale: la ricerca è orientata verso titoli più convenzionali, in grado di dare maggiori rassicurazioni ai librai e ai lettori. Uscire dal seminato oggi appare più difficile, più rischioso, una scelta che oggi non ci si può permettere. Ma davvero è così? I momenti di incertezza non dovrebbero essere proprio quelli nei quali ha più senso azzardare per cercare nuove direzioni? Più filosoficamente, un editore che rifiuta un testo anomalo, non perché non ne riconosca il valore, ma perché non sa come collocarlo sul mercato, non sta rinunciando al senso stesso del suo lavoro, ossia la capacità di proporre cultura, di aprire dibattiti e nuove strade?
Questa piccola vicenda editoriale dimostra proprio il contrario: che il pubblico è più attento, più pronto ad accettare proposte azzardate di quanto lo sia la nostra editoria.
E credo che questo debba far riflettere. Tanto.
PS: Approfondisce il discorso, con un’analisi molto intelligente, lo scrittore Alcide Pierantozzi con un articolo apparso sul sito di Rivista Studio e che trovate qui.
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