Come sapete, sono un grande appassionato di riviste letterarie. Non solo mi piace farle (a proposito, il nuovo ’tina è finalmente pronto, sarà on line a giorni), ma soprattutto leggerle, sfogliarle, collezionarle, diffonderle. Ogni volta che mi confronto con una comunità letteraria, sia che si tratti di una lezione di scrittura creativa, un incontro in libreria o un seminario, mi rendo drammaticamente conto di quanto poco i lettori siano consapevoli dell’esistenza di queste riviste e della loro validità. Per contribuire (anche marginalmente) a una maggiore visibilità ho deciso di fare alcune interviste ai fondatori e ai redattori di queste pubblicazioni.
Comincio questa serie con The Milan review, rivista distribuita in forma di volumi rilegati dalla grafica curatissima e che ha una curiosa caratteristica: quella di essere realizzata in Italia, a Milano (come ovviamente suggerisce il titolo), ma pensata per il mercato internazionale, quindi in lingua inglese.
Di questa scelta, e di molto altro, ho parlato con uno dei due fondatori, Tim Small.
- Perché hai fondato una rivista letteraria?
Perché le riviste letterarie sono belle e fighe e mi piace farle! In altre parole: quando ho fondato The Milan Review con il mio socio Riccardo Trotta, che cura la grafica e l'art direction, lavoravo da Vice Italia e volevo fare qualcosa di un po' più legato alla letteratura, dato che tramite l'annuale di narrativa di VICE, che io curavo, mi sono innamorato dell'idea.
- Ogni numero ha una grafica e un aspetto differente. Come scegliete queste edizioni? In base al tema dei testi? Per il desiderio di sperimentare diversi formati ? O semplicemente per assecondare i vostri gusti di volta in volta?
Guarda, in realtà è un po' di ogni cosa. A volte mi trovo in mano quattro testi tutti legati a un tema e dico, OK, costruiamoci attorno un numero—come fu il caso del primo numero, The Milan Review of Ghosts. A volte, come nel caso di The Milan Review of The Universe, l'idea nasce a monte e poi comunichiamo il tema agli autori. Non c'è un vero e proprio metodo. Quello che posso anticiparti, però, è che dal prossimo numero le cose saranno un pelo diverse. Abbiamo intenzione di rendere la rivista un po' meno ermetica e un po' più comprensibile in quanto rivista. Come prima cosa, avremo una testata vera e propria.
- I numeri sono monografici. Dopo quello dell’universo e quello dei fantasmi, l’ultimo (il tre) è sull’adulterio, ma è composto da una singola novella. Ti piace avere la libertà di sperimentare anche in questo senso?
Assolutamente sì. Ho sempre pensato che i temi aiutassero lo sforzo creativo. Ma è anche bello fare cose senza tema, a volte, come sarà il caso del prossimo numero, che per la prima volta sarà aperto a fotografia, interviste, e articoli. Sarà più una rivista-rivista. Sarà molto, molto diversa...
- Quanto ti ha ispirato l’esperienza di altre riviste internazionali (penso soprattutto a “McSweeney’s”)?
Moltissimo.
- La scelta dell’inglese è interessante perché la rivista, per quanto realizzata interamente in Italia, si rivolge al pubblico internazionale. Come stanno andando le cose? Come è stata accolta?
È stata accolta molto meglio in America che in Italia! Indubbiamente. Ma d'altronde, come fai notare giustamente tu, è in inglese.
- Una volta aperto questo spiraglio dall’Italia verso il pubblico anglofono, non avrebbe senso pensare a un numero di racconti di autori italiani? O non ti interessa perseguire questo tipo di divulgazione?
Mi interessa eccome. Già nel secondo numero ho pubblicato racconti di autori italiani come Chiara Barzini e Francesco Pacifico, ma erano scritti in inglese. Prima o poi vorrei fare un libro o una sezione speciale di soli scrittori italiani tradotti in inglese. Ad esempio, Tondelli e Arbasino sono praticamente introvabili in inglese.
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