Minima & moralia, il blog di minimum fax, oggi ospita un mio intervento (grazie per l'ospitalità).
Lo riporto anche qui di seguito:
I miei genitori non sanno più nominare i programmi che vedono. Sanno descriverli: – Quello della ragazza che dipinge i mobili – (“Paint your life”), – La serie ambientata durante il Proibizionismo – (“Boardwalk Empire”), – Quella della cupola – (“Under the dome”). I miei genitori sono due pensionati che non sanno l’inglese, ma vivono in Italia e guardano i programmi che la tv italiana trasmette. La verità è che un numero elevatissimo di trasmissioni ormai conserva il titolo originale americano. Ancora più assurdamente, il titolo in inglese è usato anche per programmi originali di produzione nazionale. In alcuni casi i miei non riescono neppure a pronunciarlo (“Extreme makeover home edition”), in tutti gli altri non capiscono perché tenere a mente un’accozzaglia di parole straniere per indicare cosa stanno guardando.
La domanda che pongo è: sono loro ad avere torto?
Dovrebbe far riflettere che l’abitudine diffusissima e forse inarrestabile di lasciare i titoli originali si colloca in un contesto nel quale i medesimi programmi sono interamente doppiati. A parte il nome dunque, tutto il resto è in rigoroso italiano.
Basta scorrere i palinsesti, in particolare quelli dei canali digitali o satellitari dedicati ai telefilm, per rendersene conto. Viene da chiedersi però fino a che punto questa uniformità abbia un senso.
Perché “The bridge” non si chiama “Il ponte”? Perché “The following” non è “La setta”? Perché “Homeland” non è “Patria”? Perché “The good wife” non è “La brava moglie”? Si vuole a tutti i costi mantenere l’originale? Bene. Per quale motivo allora non c’è un semplice sottotitolo sotto con la traduzione letterale? Dalla sigla in poi, tutto il resto verrà tradotto. Perché proprio il titolo, elemento fondante di una serie, no?
La conservazione dell’originale comporta la perdita di diverse sfumature di significato. Gli studenti di medicina italiani studiano sul testo classico “L’anatomia del Grey”. Perché non tenerne conto quando si ha una serie che come “Grey’s anatomy”, che proprio da quel testo prende lo spunto?
Torniamo a casa mia. Mia madre e le sue amiche non sono in grado di pronunciare “Desperate housewifes”, ma fra di loro ne parlano, sensatamente, chiamandole “le casalinghe disperate”. Nel caso specifico nel nostro paese si è giunti al paradosso. Non solo è stato scelto di rinunciare a titolo efficacissimo e molto azzeccato come “Casalinghe disperate”, ma si sono peggiorate le cose accostandovi un sottotitolo fuorviante, “I misteri di Wisteria Lane”, che oltre ad alludere a un contenuto giallo che era solo vagamente presente nella prima stagione, aggiunge altri termini inglesi.
La questione non si limita all’ambito televisivo. Al cinema è anche peggio. E’ sufficiente scorrere la lista dei film in sala in questo momento e di quelli in uscita. Fa impressione: “Royal affair”, “In another country”, “Monster University”, “The spirit of ’45”, “The grandmaster”, “Rush”, “You’re next”, “The bling ring”, “Gravity”, “Love Marylin” “Before midnight”, “The frozen ground”, “White House down”, “The chronicles of Riddick”, “The fifth estate”, “The seventh son”… E questo elenco si limita al periodo fra qui e ottobre. Talvolta il mantenimento del titolo originario avviene a completo discapito della sua comunicabilità (in quanti riferendosi al thriller con Denzel Washington “Death at 3600” avranno chiamato gli amici per proporre: – Andiamo al cinema a vedere “Death at three thousand six hundred” -?). Altre volte ignora del tutto il problema della sua comprensibilità (trovatemi almeno uno spettatore in grado di tradurre “Quantum of solace”, titolo del penultimo 007).
Non posso fare a meno di notare anche che questo istinto alla conservazione si limita ai materiali di provenienza americana. I titoli di film francesi, spagnoli, tedeschi vengono sempre tradotti. Sono rarissime le eccezioni (a me è venuto in mente solo “La mala educatiòn” di Almodovar, ma ce ne saranno anche altri immagino). In sintesi, il tutto mi puzza di provincialismo del più becero. Tu vo’ fà…
Quando pongo la questione in una discussione fra amici di solito c’è qualcuno che la giustifica in questi termini: meglio conservare il titolo originale piuttosto che subire quegli obbrobri a cui arriva la distribuzione italiana. A supporto del ragionamento vengono citati esempi eloquenti quali “Eternal sunshine of the spotless mind”, da noi uscito come “Se mi lasci ti cancello”. Trovo questa obiezione risibile: fra una titolazione che offende l’intelligenza dello spettatore e il mantenimento dell’originale ci potrà essere una terza via, no? Intendo un lavoro serio e intelligente che si sforzi di produrre un titolo fedele e significativo. Come già dovrebbe avvenire, senza che ci sia l’esigenza di richiederlo.
Neanche l’editoria è immune al fenomeno. Certo, in maniera molto minore, ma anche qui non mancano i casi ingiustificabili. Prendiamo per esempio la bibliografia italiana di Chuck Palahniuk e chiediamoci perché i suoi libri da noi si chiamino “Invisible monsters”, “Guinea pig”, “Survivor” e (il più patetico di tutti) “Diary”. Pareva brutto dare a un romanzo in forma di annotazioni giornaliere il titolo di “Diario”? A quanto pare sì.
Intendiamoci, non sono contrario all’uso dell’inglese in sé. Io stesso ho usato una canzone inglese come titolo per un romanzo, e non avrebbe avuto alcun senso tradurla. Quello che contesto è il dilagare incontrastato del fenomeno, l’idea che i titoli inglesi in un paese che doppia tutto diventino una semplice abitudine senza che nessuno la metta in discussione, che il provincialismo l’abbia vinta sull’esigenza (legittima) della decodificabilità.
Ci sono contesti nei quali la diffusione della terminologia inglese avrebbe un senso molto maggiore. Chiunque abbia viaggiato in luoghi come i paesi scandinavi avrà notato quanto l’uso dell’inglese sia diffuso. Anche la signora con le borse della spesa incontrata per strada in un villaggio di provincia è in grado di dare indicazioni allo straniero che si è perduto. In queste regioni la convivenza fra la lingua nazionale e una internazionale è un dato di fatto (basti pensare alle decine di gruppi pop che il cui intero repertorio è stato pensato e realizzato sin da subito in inglese, dagli Abba agli A-ha, dai Knife ai Roxette). Distribuire materiale in lingua anglosassone qui sarebbe funzionale, se non addirittura naturale.
In Italia, a giudicare dai manifesti dei film o persino dagli slogan pubblicitari, un turista sarebbe portato a credere che l’inglese sia di dominio pubblico: niente di più lontano dalla realtà. Gli andrà di lusso se l’autista dell’autobus saprà dire “Ticket”, indicando con un gesto della mano dove acquistarlo.
L’imbarbarimento linguistico nella comunicazione rivolta ai giovani (la hit più cool momento, l’action-video in esclusiva sul tuo digital store, il beach party più hot dell’estate) fa sempre parte di questa tendenza all’approssimazione totale.
La dicotomia fra la presunta padronanza di una lingua straniera e la sua effettiva (scarsissima) diffusione presso la massa è dolorosamente evidente e rischia di essere deleteria: invece di trasmettere un sapere ci si accontenta di frammenti casuali e superficiali, che forse in pochi capiscono, ma comunque fa figo citare e riportare.
Appunto, ancora: provincialismo puro.
Ne faccio una questione culturale a partire da una frustrazione squisitamente personale. Perché non so cosa avvenga coi vostri genitori, ma quando io vado a cena dai miei e impieghiamo minuti per spiegare a vicenda gli spettacoli che stiamo seguendo, come stranieri che fanno fatica a comprendersi, ecco, a me viene una certa tristezza.