lunedì 27 gennaio 2014

PRIMA CHE ARRIVI ANTONELLA

Giovedì 30 gennaio alle ore 19 alla libreria Gogol & Company in via Savona 101 a Milano, presenterò insieme ad Alcide Pierantozzi, il romanzo “Prima che tu mi tradisca” di Antonella Lattanzi, un libro molto bello, intenso, dalla scrittura eccezionale. Per annunciare l’evento ho voluto fare un’intervista all’autrice: da queste risposte già si può intuire che sarà un incontro interessante. Vi invito a partecipare.



E’ difficile dire esattamente di cosa parli “Prima che tu mi tradisca”: è una storia familiare, è un romanzo di formazione, è un ritratto sociale dell’Italia del sud degli anni ’90, è il rapporto di odio/amore di due sorelle... Tu come lo definiresti?
Per me è tutto questo. Severino Cesari [editor di StileLibero Einaudi, ndr] l’ha definito un “libro mondo”, e per me è la definizione più bella che può essere data a questo libro. A differenza del mio primo romanzo, Devozione, che si reggeva su un tema principe - l'eroina, ma più in generale la dipendenza - attraente e respingente allo stesso tempo, Prima che tu mi tradisca si regge solo sulla scrittura, sulla storia, sui personaggi, sull’atmosfera: se funzionano il libro regge, se no si accartoccia se stesso. Prima che tu mi tradisca è, per me, come la vita: ha tanti temi diversi. Per me i romanzi sono tutti una storia d'amore e un giallo: anche quando nessuno è morto davvero, pure c’è sempre qualcuno che in qualche modo è stato ucciso, e una delle domande principe è sempre chi l’ha ucciso e perché. Lo stesso vale per l’amore. Prima che tu mi tradisca è una storia di amori, di tradimenti, e un giallo, un noir. La storia di due donne, Angela Junior e Michela, che per accidente sono sorelle, e che si spostano tra Bari e Roma, gli anni 90 e i 2000, la realtà, l'irrealtà, il fantastico e la Storia, il razionale e l’irrazionale, nel tentativo di essere felici e di rispondere alla domanda: cos'è accaduto nella loro infanzia di tanto terribile da far deflagrare le loro vite e cambiarne il corso dell'esistenza? Cosa succederà, ora?

E’ un libro tutto al femminile: la relazione difficile della protagonista, Michela, con sua sorella e sua madre (entrambe di nome Angela) e l’ambivalente rapporto con l’amica Silvia. Allo stesso tempo, soprattutto nella prima parte, di femminile c’è ben poco: zuffe, motorini, fughe, sfide. Mi verrebbe da usare una definizione da elementari: Michela è un maschiaccio, no? 
Gli uomini e le donne di questo romanzo hanno personalità molto contraddittorie. Michela aspira a essere una donna seducente e intelligente come sua sorella maggiore Angela Junior, ma è ancora una bambina e, anche quando cresce, non riesce ad assestarsi in un'unica personalità, non riesce a diventare la donna che voleva essere. Non so se è un maschiaccio, ma di sicuro è il prodotto, anche, del quartiere e del tempo in cui vive, dove se non sei violento sei, di sicuro, almeno molto affascinato dal violento. 

Io ho l’impressione che il vero protagonista di questo libro sia la città di Bari, che infatti è continuamente evocata (e in ogni senso: ammirata, insultata, difesa, distrutta, analizzata). Un po’ come a dire che questa stessa storia, senza Bari intorno, non avrebbe mai potuto esistere. Mi sbaglio?
Non ti sbagli per niente. Per me le città sono sempre personaggi attivi e veri dei romanzi. E, più in generale, per me le città, i luoghi, ma anche gli oggetti, sono vivi. Non si vive a Bari come si vive a Milano, né si vive a San Lorenzo come si vive a Prati (sono due quartieri di Roma). Per me, parafrasando quello che diceva Calvino, un romanzo (lui diceva un classico) è quel libro che parla anche di te. È questo che vorrei per i miei libri: che parlassero anche di te. Che raccontando Bari io riuscissi a raccontare tutte le città e le loro zone oscure, ma anche il tuo sud, il tuo “luogo dell'origine”; che raccontando Roma potessi raccontare tutte le metropoli grandi, seducenti, respingenti, ma anche l'idea di diventare grande che s’infrange contro la realtà di diventare grandi. Per me una storia dettagliata, narrativa, piena di immagini e fatti è paradossalmente l'unica in grado - se è riuscita - di raccontare mondi, persone, luoghi molto distanti da sé, mentre una storia generica non può farlo.

In questo senso che rapporto hai con gli altri autori baresi (Gianrico Carofiglio, Nicola Lagioia, Valerio Millefoglie)? Intendo dire, ti sei confrontata con il modo in cui loro hanno descritto Bari nei propri romanzi? (Ricordo che nel suo primo libro anche Millefoglie parlava di topini e di inseguimenti, per esempio...)
Millefoglie non l'ho ancora mai letto, ma sono molto curiosa di farlo. Per quanto riguarda Carofiglio e Lagioia, abbiamo modi molto differenti di raccontare Bari. Così come ci sono tantissimi autori che raccontano Roma, Milano, New York. Penso che ciò che accade per l'amore, per le persone, per il tempo, sia vero anche per i luoghi: ogni volta che qualcuno racconta, che ne so, anche una cosa così apparentemente banale come il cielo lo racconta in modo diverso; o l'amore; lo stesso vale per i luoghi. Lagioia in particolare in una parte di Riportando tutto a casa ha raccontato Japigia. Ed è stato molto affascinante per me vedere come la raccontava lui, che la viveva come il luogo buio della città, il passaggio dalla luce del centro al buio dello spaccio e della periferia violenta, e come invece lo percepivo io, che ci sono nata e cresciuta, e che dunque vivevo Japigia come "casa". 

La differenza sostanziale, a mio avviso, rispetto al tuo primo romanzo, Devozione, è che qui tu dimostri di maneggiare con molta sicurezza la narrazione. Ci sono forti salti temporali (dall’infanzia di Michela alla sua adolescenza sino alla sua vita adulta) e particolari decisivi che scegli di dosare nelle rivelazioni. Ancor di più mi sembri rafforzata nell’uso dei dialoghi, che a volte coinvolgono più persone e che risultano comprensibili al lettore anche se spesso tu non specifichi chi stia parlando. Come sei arrivata a questo risultato? E’ frutto di tante riscritture o di una tua maturazione professionale?
Grazie Matteo, mi fa davvero felice quello che scrivi. In realtà non so dire con certezza, se qualcosa è riuscito nel mio romanzo, perché è riuscito. Io spero che sia per entrambi i motivi: per il lungo lavoro (quattro anni di scrittura e riscrittura, ma in realtà era da sempre che ci pensavo e che studiavo i luoghi, le persone e gli eventi storici che volevo raccontare) e per la maturazione. Devozione era il mio primo romanzo, la prima volta in cui mi cimentavo in una materia così delicata, e dunque ho dovuto lavorarci cinque anni, tra le altre cose anche per capire come si scrive un romanzo. Con Prima che tu mi tradisca non è che sapessi come si scrive un romanzo - questo credo non lo saprò mai, lo dovrò scoprire ogni volta - ma avevo raggiunto delle piccole conquiste. Il mio scopo è veramente tentare sempre di migliorarmi, penso sia uno dei motivi per cui valga sempre la pena di impegnarsi così tanto per la scrittura, per cui quelle conquiste le ho messe da parte e ho tentato di inventare una nuova lingua, un nuovo ritmo, un nuovo modo di scrivere che si confacesse a questo romanzo e a nessun altro. Per me ogni scena, ogni personaggio ha bisogno del suo modo di scrivere, della sua lingua, del suo ritmo narrativo: per questo in Prima che tu mi tradisca si passa spesso dalla prima alla terza persona, e anche la prima persona è di volta in volta lo sguardo di personaggi diversi, Michela, Angela – le due protagoniste del romanzo – ma anche il loro padre o altri personaggi. Per quanto riguarda i dialoghi: io li adoro. Scrivere un dialogo che sia realista non vuol dire scriverne uno verosimigliante, anzi, tutto il contrario. È una bella sfida, ma se ti riesce è molto eccitante. Cerco sempre, in generale, quando scrivo, di uscire dalla mia testa, dal mio corpo, dal mio carattere, dalla mia personalità, dal mio tempo, dai miei luoghi: per calarmi nei luoghi, tempi, corpi, caratteri che voglio raccontare. È una delle possibilità della scrittura che mi affascina e mi seduce di più.

Una caratteristica della tua scrittura è l’ossessività: ci sono scene nelle quali ti immergi per pagine e pagine, quasi dilatando lo spazio e il tempo, sviscerandole fin nel più piccolo dettaglio. Penso per esempio al primo incontro tra Michela e Silvia, il tragitto in motorino fino a casa di Silvia. Piccoli eventi quotidiani che diventano quasi un’epopea che occupa svariati capitoli. Cosa ti affascina di certi episodi al punto da farli diventare così importanti? 
Come dicevo prima, per me ogni scena ha bisogno del suo ritmo, del suo linguaggio; e dunque anche del suo spazio. Quando scrivo, ho sempre, di volta in volta, in testa la scena come fosse realmente accaduta: vedo i rumori, i suoni, i pensieri dei personaggi, gli odori, e anche tutto ciò che di intangibile e irrazionale e super-razionale c’è in ogni scena. Il difficile – anzi, il difficilissimo – è tradurre tutto ciò in parole. Come sempre del resto, quante volte diciamo: non riesco a spiegarti quello che vorrei dirti. Nella vita reale, spesso non riuscire a dire ciò che vorremmo o non riuscire a capire ciò che qualcuno vuole dirci ci fa del male: da ciò nascono incomprensione, solitudine, rancori. Nella scrittura è lo stesso: se non riusciamo a tradurre in parole, in segni, le scene che abbiamo nella testa, è la tragedia. Per me la scrittura narrativa è anche scrittura per azioni, per fatti: cerco il più possibile di raccontare ciò che succede, lasciando che sia il lettore a creare le emozioni, a tirare le somme, a mettere le lacrime o il riso in ciò che scrivo: il lettore creatore insieme allo scrittore, che riempie gli spazi bianchi lasciati dallo scrittore e li anima, è il mio ideale. Ci sono scene, allora, che vanno raccontate in un soffio. Sul finire del primo capitolo, per esempio, racconto decenni in un paragrafo. Altre invece – anche per il tipo di montaggio che uso (flashback, flashforward, inserti temporali, associazioni per analogia, contemporaneità eccetera) – hanno bisogno di più tempo, di più spazio. Mi sembra sempre di star vedendo un film, mentre scrivo: la complessità dunque non è nelle singole scene, che devono essere il più semplice possibile, ma nel loro montaggio. È nel montaggio che sta la narrazione, che sta il ritmo e lo stile di un romanzo. L’ossessività dovrebbe essere dato da questo, come la leggerezza e il comico o l’ironico in altri momenti del romanzo.


Questo non è un libro autobiografico, eppure, come Micky nel romanzo, anche tu hai una sorella e una madre che si chiamano entrambe Angela. Come hanno preso questa coincidenza? Ti parlano ancora?

Non vedevo l’ora di rispondere a questa domanda! Mia madre e mia sorella hanno detto: questa è la cosa meno autobiografica che hai scritto. Considerando che il mio precedente romanzo, Devozione, parla di due eroinomani… Però capisco cosa vogliono dire (o almeno spero!). Per scrivere, in Devozione, di un tema e un mondo così lontano da me, come quello dell’eroina, oltre che studiare tantissimo e calarmi nel mondo che volevo raccontare (mi sono finta tossica per mesi, sono stata a Secondigliano, sono stata nei sert dichiarandomi tossicodipendente eccetera), ho dato a Nikita, la protagonista del romanzo, tanto di me: la passione per la danza e per la scrittura, per esempio, lo studentato di San Lorenzo in cui ho vissuto anche io, alcune caratteristiche del suo fidanzato Pablo (catanzarese come il mio fidanzato del tempo). Mentre con Prima che tu mi tradisca di autobiografico ci sono solo dettagli – per esempio, anche mia sorella e mia madre si chiamano Angela (motivo in più per non parlarmi!), ma questo nome mi piace troppo, non ci potevo rinunciare – o certi luoghi. Per esempio Japigia, quartiere protagonista della prima parte del romanzo, nonché quartiere in cui sono nata e cresciuta, e dove ancora oggi vivo quando vado a Bari a trovare i miei – con molto orgoglio. La storia, invece, la trama, i personaggi sono tutti inventati. Questo perché fare autobiografia non mi è mai piaciuto. È così bello inventare storie. È così bello creare personaggi che diventano persone (o almeno provarci). Poi, però, quando ho finito di scrivere questo romanzo, e ho cominciato a parlarne, ho capito una cosa che non sapevo. Quando avevo diciotto anni, di colpo, mia sorella ha deciso di avere un figlio. Dal giorno alla notte veramente non avevo più una sorella. Io ero ancora una ragazzina e lei era diventata una donna. Se n’è andata di casa. Ha smesso di essere “mia amica”. Ecco, io credo che tra i motori di questo romanzo ci sia proprio questo abbandono – o almeno, è così che l’ho percepito io al tempo: mia sorella non è mai scomparsa, è rimasta sempre a Bari, e ha una vita per fortuna molto più serena di quella di Angela Junior; ma per me è scomparsa, di colpo, un pomeriggio di tanti anni, quando stavo per compiere diciotto anni e la amavo come non ho mai più amato nessuno (e la amo ancora; ma è sempre stato un amore travagliato, doloroso, come tutti i miei grandi amori).




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