

Durante queste feste natalizie la mia casella postale di Facebook è stata invasa da auguri, anzi da catene di auguri. Per la struttura della posta di FB, ogni messaggio inviato a molteplici destinatari implica che la risposta sia collettiva, pertanto gli auguri si protraevano per giorni, spesso in uno scambio tra persone a me sconosciute ma capitate nel mio stesso elenco. Cancellare i messaggi non serviva a niente: come in un incantesimo tecnologico, bastava che qualcuno rispondesse di nuovo ed ecco che l'intera catena ricompariva nella casella. Più che auguri, una maledizione.
Mi sono lamentato ironicamente della faccenda in uno status: "Caro Babbo Natale, per regalo mi liberi dalle catene di auguri collettivi e relative risposte? O, in alternativa, porti la pace nel mondo? (Preferirei la prima comunque)".
Subito c'è stato qualcuno che mi ha tacciato di stronzaggine: possibile che fossi tanto terribile da non apprezzare la gentilezza di chi voleva augurarmi buone feste?
Ecco, questo mi ha fatto riflettere. Se mai gli auguri hanno un senso, dovrebbe risiedere nella sincerità e nell'affetto di chi li porge. Davvero mandare lo stesso messaggio in batteria a decine e decine di persone equivale a trasmettere un sentito augurio? Raggruppare amici e semplici conoscenti in un click, inviando un'immagine natalizia pescata dalla Rete, significa realmente aver trasmesso un pensiero affettuoso? Forse non la pensiamo nello stesso modo.
Questo episodio me ne ha riportato alla mente un altro avvenuto oltre un anno fa. Un giorno avevo manifestato in un post l'elogio di un disco appena uscito. Era l'aprile del 2009. Sotto quel mio status, a sorpresa, sono apparsi numerosi commenti, ma non riguardavano l'album. Erano di gente che mi accusava di insensibilità perché non stavo manifestando solidarietà alle vittime del terremoto dell'Aquila, avvenuto pochi giorni prima.
Ero basito.
Come tutti, in quella settimana, stavo seguendo la tragedia del terremoto aquilano. Avevo visto un numero imprecisato di telegiornali, aggiornavo (a volte con frequenza ossessiva) le prime pagine dei quotidiani on line, avevo trascorso più di una serata sintonizzato persino sull'orrido Porta a porta vespiano per seguire i dibattiti in corso. Che ne sapeva la gente di Facebook se provavo o meno interesse? Di cosa mi stavano accusando?
Ho navigato un po' tra le pagine dei miei contestatori. Contenevano le solite cose: foto personali, video comici ripresi da YouTube, battute scambiate fra amici... Non erano volontari che scavavano fra le macerie, non era gente che stava dando una mano sul posto. Era gente qualunque. Però qualcuno aveva sostituito la foto del profilo con una bandiera dell'Aquila, qualcuno aveva messo come status "Solidarietà alle vittime del terremoto". Ecco: questo, evidentemente, segnava la differenza morale fra me e loro. Era un discrimine sufficiente per arroccarsi su un piedistallo in posizione giudicante.
Forse sono io che sono old-school, ma comincio a credere che la facilità di comunicazione dei social network possa creare dei fraintendimenti colossali.
Ho un passato fatto di volontariato, di impegno sociale portato avanti per anni di cui non ho quasi mai parlato e non mi interessa comunque farlo. Ma almeno so cosa vuol dire manifestare solidarietà, ed è una cosa che implica sbattimenti, incomprensioni, sveglie all'alba, compagni di pensiero, fatica, piccole soddisfazioni molto intime e personali.
Cambiare figurina sul profilo davvero non ha niente a che fare con la sensibilità, l'impegno, la caratura morale. Può essere un segnale, certo, ma non motivo sufficiente per sentire la coscienza a posto e mettere in discussione quella altrui.
Che sia il caso di comiciare a spiegarlo?
[Pubblicato ieri sul blog dell'Unità Pensierini]